Come ogni mattina bisogna aprire il balcone. Lividi nel cielo bombato, aria gelida che sferza la pelle ancora accaldata. Rumori meccanici in lontananza. Ora scappo, pensi. Corro, sì, ancora in pigiama, veloce, folle, scriteriato, con un secchio di vernice fucsia per ridipingere la città e al diavolo tutto il resto.
E un’idea talmente irrealizzabile, che la mastichi con rabbiosa convinzione. E’ chiaro che sei vittima di un vagito adolescenziale, di un rimorso esistenziale che t’ingrigerà i giorni a venire. Colpa loro e dei Pains Of Being Pure At Heart suonati in sottofondo dallo stereo. Poi ripensi a chi ascolta musica per rilassarsi e sorridi amaro.
Tornare indietro nel tempo, al rumore rosa che pizzicava i neuroni, alla dolce confusione che animava le giornate. Tra melodie Smithsiane e distorsioni shoegaze, il quartetto newyorkese inanella dieci canzoni perfette, vibranti, circolari come la miglior centrifuga, essenziali come il più lucido dei sogni. Vengono in mente illustri predecessori, dai Black Tambourine agli onnipresenti My Bloody Valentine, dai Pastels agli M83. Davvero un bagno rigenerante, un Cocoon casereccio, tuffarsi nel pop maleducato di Alex, Kip, Kurt e Peggy. Mezzo ascolto e si rimane invischiati tra i solchi di questo debutto convincente, innamorati persi, come al tempo delle mele, di ogni sguardo che incrocerete per strada.
I Pains Of Being Pure At Heart in 34 minuti scarsi riassumono molto bene il concetto base del ‘pop’ di qualità , scartando il superfluo e premendo l’acceleratore tra cuore e stomaco. Dieci canzoni, dieci singoli potenziali.
Rotolano feedbacks in continuazione come caprette che scendono dal pascolo, riverberi e caramelle alla fragola che imporporano lingua e labbra. E’ tutto un gioco di rimandi e malinconie che fanno bene.
Ed ora accettate un ultimo consiglio: se proprio dovete fuggire di mattina presto, cambiatevi almeno quell’orrendo pigiama di pile marrone. Ci vuole stile nella vita. Sempre. Soprattutto nelle fughe.