Frugando nelle tasche ho tirato fuori solo una manciata di polvere. Ho perso tutto. Sono diventato il fulcro su cui fa leva il mondo. Un fantasma insanguinato si aggira svagato tra lamiere contorte e fumanti. Sono io. Siete voi che sorridete e non guardate più il male che fate.
Un vento atomico turbina attorno alla mia pelle, passa ultrasonico, violento, bollente. Strappa via ogni ostacolo e brucia il poco che resta. Eppure mi sento meglio che mai. Brian Aubert canta e tutt’attorno cadono mele candite. E’ l’imprescindibile alchimia che cola dal rock’n’roll, quello fatto di sangue e sudore, di mari elettrici e bei sogni pagati a caro prezzo. I Silversun Pickups piantarono un chiodo grande quanto una casa con “Carnavas”, album d’esordio fulminante, stracolmo di ricordi di zucche spappolate e di anni vissuti sull’onda di una ruvida malinconia.
Il ritorno sulle scene è un sorriso inaspettato scorto furtivamente, un florilegio di splendide canzoni che creano spazi per zigzagare nei sogni come insetti tra i fari. La band losangelina è una macchina da rock impressionante, costruisce un muro di suono imponente, si destreggia alla grande tra sezioni ritmiche à la Smashing Pumpkins e distorsioni riverberate degne dei migliori Amusement Parks On Fire, andando ad affogare il tutto nei feedbacks nutrienti dei My Bloody Valentine.
Gli ingredienti per gridare alla bella copia di cose già sentite ci sarebbero tutti in teoria, eppure i Silversun si fanno portatori di un sentimento puro, come se stessero disperatamente cercando di non lasciar morire nell’indifferenza il decennio più eccitante della storia del rock contemporaneo.
Ne viene fuori una meraviglia prodotta in maniera egregia, con un lavoro mastodontico su chitarre possenti ed oniriche impregnate di melodie, che fanno da contraltare a linee vocali morbide, languide, dolci carezze per indomiti sognatori. Cristopher Guanlao alla batteria è una fucina ritmica che non perde un colpo, un concentrato di energia che s’inerpica tra scie di basso inspessite dal gusto femminile di Nikki Monninger.
“Swoon” è un album immerso in una luce assoluta, tonitruante rumore di fondo di un nuovo inizio, fame bruta che torce le viscere, una torta multistrato foriera di canzoni decisive come “The Royal We”, vero fiore all’occhiello, o “Substitution”, primula profumata dai mille sospiri lasciati tra i solchi di una “1979” del tempo che fu. Ascolti “It’s Nice To Know You Work Alone” oppure “There’s No Secret This Year” e hai la certezza di trovarti al cospetto di una band da ascoltare ora che è nel pieno della giovinezza artistica e che non devi lasciarti sfuggire per nessuna cosa al mondo. Perchè la pelle scorre via liscia solo a vent’anni.
Credit Foto: Claire Marie Vogel