Dopo un primo disco clamoroso con contorno di relativo remix album di pregevole fattura, un secondo disco così così ma in fondo assolutamente onesto, un terzo disco letteralmente impresentabile con relativo remix album che va ovviamente considerato come un’aggravante i Bloc Party sono un gruppo finito. O meglio, sono un gruppo sull’orlo del baratro, con pesanti scazzi interni che ne minano la tenuta dal vivo ed almeno due membri che vorrebbero essere altrove, magari a godersi i (verosimilmente tanti) soldi guadagnati all’ombra del frontman Kele Okereke. Un altro disco e poi fine della corsa, così magari Okereke inizierà una carriera solista e gli altri si perderanno per strada. Oppure Okereke si perderà per strada e gli altri che decideranno di restare torneranno a suonare come una grande band.
L’impressione che si ricava dalla data di Ferrara è proprio questa: una band stanca ed imbolsita, che ci prova ma non ci crede nemmeno più, o meglio non ce la fa proprio. Salgono sul palco ed è subito tripudio, ma attaccano ed iniziano le dolenti note. Ognuno sembra suonare per conto proprio, la voce di Okereke raramente convince, le sue movenze al rallentatore finiscono per peggiorare la situazione e ciò che esce dalle casse è una massa di suono informe che poco somiglia a quanto presentato su disco. Eppure i supersingoli tratti dal primo, capolavoro “Silent Alarm” riescono a dire ancora la loro e paiono sempre potersi rivelare punto di svolta del concerto, ma sono brevi fiammate che si portano immediatamente via l’illusione di poter vedere i Bloc Party tornare ai fasti di un tempo. Han provato a proporre una scaletta altamente populista quasi del tutto basata sui primi due dischi con puntate nei territori più chitarristici del terzo lavoro (leggasi ‘han suonato quei brani che paiono scarti dei vecchi lavori’) e con relativa (prevedibile) conclusione più electro-oriented ma non ce l’hanno fatta, ed ora devono accettarne le conseguenze.
A questo punto, vien perfino da pensare che la svolta pseudo elettronica dell’ultimo, clownesco album “Intimacy” sia stata imposta dall’alto e sia stata digerita malissimo da almeno due quarti della band finendo per incrinare un equilibrio che pareva a prova di bomba, ma non sempre è bene essere troppo sospettosi. Meglio tirare in ballo scuse come ‘stanchezza’, ‘tour interminabile’, ‘caldo torrido’, ‘Kele Okereke dal vivo è sempre stato tragicamente legnoso’, ‘a dire il vero dal vivo non mi hanno mai convinto troppo’, ‘come il 90% dei gruppi odierni sono meglio su disco che dal vivo’ e via discorrendo, meglio lasciare il beneficio del dubbio.
A detta di molti parevano essere destinati a diventare i nuovi Radiohead, han fatto fare la figura dei giganti ai sorprendenti-in-barba-ad-ogni-aspettativa White Lies (che suonano come se Ian Curtis dei Joy Division non si fosse mai impiccato e lui e la sua band avessero spontaneamente deciso di diventare i New Order ed a Ferrara han dato vita ad un set ad onor del vero di durata eccessiva ma godibile e molto suggestivo, prova provata che c’è vita oltre l’heavy rotation su Mtv). Peccato, ci avevamo creduto.
Photo: Drew de F Fawkes / CC BY