Ad un certo punto della stagione scorsa, il cinema toccò uno dei suoi punti più bassi quando Lars Von Trier decise di far parlare una volpe digitale nel suo pretenzioso “Antichrist”.
E’ quasi un segno del destino che Raimi abbia deciso di lanciare al massimo il motore del cinema utilizzando una capra parlante, dimostrazione sempre utile di come il cinema non sia tanto una questione di cosa si dice, ma di come lo si dice.
La volpe di Von Trier si copriva di ridicolo decantando il nietzschiano slogan il caos regna! mentre la capra di Raimi si accontenta di un Mi hai fregato, puttana!, che ricorda alla platea come tutto quello sta vedendo sia alla fine solo un film.
Dopo l’abbuffata della trilogia di “Spider-Man”, il regista del Michigan è tornato alle origini: un horror low-budget con pochi personaggi, pochi dollari da spendere e – come spesso accade – tante idee da mettere in campo, come ai tempi gloriosi in cui confezionò “Evil Dead” in pochi week-end, con i suoi amici chiamati ad offrire recitazioni improvvisate.
“Drag Me to Hell” è uno dei film più puri di Raimi, quasi la rassicurante dichiarazione di come lavorare per quasi un decennio a stretto contatto con Hollywood, con centinaia di milioni di dollari e con i progetti di blockbuster dalle grandi ambizioni, non lo abbia cambiato affatto, e non abbia soprattutto influito in quella che è la sua idea del cinema.
Già lo spunto iniziale del film è una solenne presa in giro, specie per chi vorrebbe rintracciare in ogni film un sottotesto, un contenuto da spiegare a tutti i costi: la donna che rifiuta il prestito alla zingara, e perde così la sua anima alla ricerca di una promozione professionale, è certamente legata alla crisi economica in corso negli Stati Uniti, ma è un argomento tanto evidente che la sua individuazione diventa quasi banale, e passa immediatamente in secondo piano.
A Raimi, non interessa affatto deformare la realtà sociale della sua nazione: dopo tante costrizioni, con “Drag Me to Hell” è per lo più intenzionato a divertirsi come non faceva da tempo: così, ha preparato un film assolutamente delirante, in cui gli fosse possibile alternare momenti di puro cinema ad altri girati con la fidata shakeycam di sua invenzione.
Cosa dire infatti degli strepitosi raccordi sull’asse che si avvicinano ad Alison Lohman – tutti da angolazione diversa, una sorta di sospensione ejsensteniana nel mezzo di un impazzito film di possessione demoniaca – quando lo spirito maligno fa la sua prima irruzione in casa sua?
E’ effettivamente possibile rifiutare la deformazione grottesca di certi luoghi comuni dell’horror, come gli eccessi grotteschi che accompagnano la caratterizzazione della zingara: lo sgusciare continuo della sua orribile dentiera, o la sporcizia delle sue unghie.
E’ possibile negare il potere dissacratorio con cui Raimi – uno che ama l’horror al punto di concedersi il lusso di prenderlo in giro – fa in modo che la Lohamn spruzzi dal naso un litro di sangue addosso al suo capo, o fa in modo che la zingara – pure da morta – le vomiti addosso una quantità incredibile di formalina.
E si potrebbe essere anche capaci di storcere la bocca quando si vede Milos, l’aiutante della medium durante la seduta spiritica, cadere vittima del maligno ed improvvisare un antica danza rumena con tanto di fisarmonica: potrebbero essere derivazioni care solo ai fan di Raimi, a quelli che lo hanno amato sin dal primo film proprio per queste sue caratteristiche e cartoonesche divagazioni (la mano di Ash che si ribella al suo padrone in “Evil Dead 2”).
Dopotutto, “Drag Me to Hell” inizia con una citazione nostalgica, con il vecchio logo della Universal rispolverato da uno che – insieme a Joe Dante, presto in sala con “The Hole” – era tarantiniano quando il regista del Tennessee ancora andava alle scuole medie.
Eppure, non si può restare stupiti dal modo in cui sceglie di suscitare emozioni puramente cinematografiche con mezzi minimali, come una macchina minacciosamente in attesa in un parcheggio (la vecchia Delta88 di Bruce Campbell…), o seguendo il volo di un fazzoletto nell’aria: in quei momenti sospesi, in cui la visione diventa un’esperienza emozionale legata a delle immagini in movimento, non si può fare a meno di ringraziare Raimi per come riesce a non prendersi mai troppo sul serio, pur essendo uno dei pochi ad aver rubato la scintilla segreta del cinema.