Quando una rappresentanza aliena entra in contatto con il genere umano possono prospettarsi varie possibilità , dai più drammatici propositi bellicosi, alla commovente conoscenza di extraterrestri teneri, al delirante e comico incontro tra due società completamente inconciliabili.
Il cinema ha raffigurato molteplici versioni di quel fantomatico momento, proponendo modelli che vanno dall’approccio scientifico e serio al filosofico, dal satirico al sentimentale, dal catastrofico al trascendente, con risultati fatalmente incostanti, frutto certamente delle singole capacità artistiche, spesso altresì dipendenti dal criterio impiegato per rappresentare un argomento così delicato.
“District 9”, dell’esordiente Neill Blomkamp, decide di tradurre in termini marziani contenuti propriamente umani: l’opinione sullo straniero e le conseguenze tratte da una concezione di accoglienza del diverso immancabilmente intollerante.
Quando perciò, alla stregua di immigrati, arrivati su sponde estere, tramite una chiatta indesiderata, più di un milione di alieni approda nell’atmosfera terrestre, quale naufrago stremato e denutrito, perdendo in tal modo qualsiasi aura di intrigante mistero, l’intellighenzia umana pensa bene di segregarlo all’interno di un’area delimitata militarmente.
Non ritenendo sufficientemente adeguato l’isolamento, spesso infranto dagli impulsi sovversivi degli “stranieri”, insofferenti alle regole nostrane, e sempre più invisi dalla popolazione antropica, mai stata tanto unita, al di là delle differenze razziali, nel disprezzare un comune nemico, il manipolo di reclusi, vent’anni dopo il memorabile sbarco, subisce un piano di sfratto, secondo il quale debba trasferirsi in un campo ben più distante quello attuale.
Un film è sostanzialmente storia e metodo. Se la storia di “District 9” ha come tema centrale il limite prettamente umano del pregiudizio nei confronti della diversità , talvolta brutalmente esasperato in odio razziale, è inevitabile pensare come la trama non spicchi per innovazione, nonostante la bontà e l’assoluta giustezza etica.
Stabilito questo punto, si può benissimo parlare di una riforma cinematografica nell’ambito del genere fantascientifico, e tale opportunità è resa plausibile dal metodo narrativo.
Ricavato dal cortometraggio di 6′ dello stesso Blomkamp, “Alive in Joburg” (2005), e prodotto da un affascinato Peter Jackson, “District 9” ha più di un merito, che lo rende una confezione di forte interesse. Prima di tutto, la scelta di Johannesburg, per quanto naturale in riferimento a tematiche apartheid, non è così scontata come potrebbe sembrare, in un panorama filmico che ha sempre, o quasi, visto gli alieni atterrare sul suolo statunitense, neanche fosse la terra promessa di un Messia atteso.
Inoltre, dal punto di vista ‘tecnico’, la pellicola di Blomkamp, mostra un’efficace e atipica trasposizione. L’approccio documentaristico, se già praticato in titoli precedenti (“Cloverfield” l’esempio più calzante), assume in “District 9” un abito di verosimiglianza notevole, attraverso il quale pazzeschi esseri extraterrestri acquisiscono un tono di credibilità non prevista, probabilmente impossibile tramite un’elaborazione cinematografica tradizionale. In questo caso, la scelta del giovane regista sudafricano di filtrare il racconto per mezzo di riprese di varia origine (telecamere a mano, amatoriali, cellulari e videocamere di sicurezza), ma sempre calate in una realtà riprodotta come concreta, ha assecondato perfettamente l’ideale di attendibilità , accentuando il valore di immedesimazione dello spettatore.
“District 9” non è però un film privo di difetti, essenzialmente emersi nel finale. Se da un lato appare poco plausibile il cambiamento di Wikus Van De Merwe che, da vile personaggio, spinto da motivazioni esclusivamente egoistiche, da ultimo si sacrifica per la salvezza dell’alieno Christopher (eppure è interessante l’evoluzione dell’imperturbabile Wikus da sprezzante burocrate a sgomento e inerme fuggitivo), dall’altro disturba un poco anche la conclusiva frenesia rissosa, sospesa tra i fragori confusionari di “Transformers” e un molesto riferimento alla fusione macchina-carne del disturbante “Crash”, di Cronenberg.
“District 9”, al di là di queste “‘sciocchezze’ facilmente perdonabili per un esordio comunque brillante, rappresenta un ottimo risultato cinematografico, una prova convincente di come gli effetti speciali, in determinate circostanze, possano integrarsi completamente nel tessuto narrativo, senza dover recitare la scomoda parte dell’accessorio, spesso inopportuno e pretestuoso.