Puoi vivere a Londra e vedere 4 concerti a settimana, al punto che ascoltare gente che suona è un po come fare la spesa certo puoi ed è bello scegliere e a chi non piace mangiare, ma in certe circostanze diventa una sorta di ineluttabile routine. Ti ritrovi quindi a concerti che tutto sommato ci vai più per dovere che necessità , tipo mi fanno tutto questo gran parlare di Laura Marling vuoi non andarci a sto concerto?
Fuori pioggia all’interno atmosfera rilassata come impone ogni concerto folk. Un sacco di gente direi, fondamentalmente troppa mentre mi guardo intorno e sono tutti lì ad aspettare davanti al palco. Quasi trentenni colletti bianchi reduci di Liverpool Street con ancora addosso un vago odore di erba e le cravatte infilate malamente nella tasca della giacca, ragazzini dall’aria stropicciata con le magliette a righe, le scarpe basse e i capelli perfettissimi, le tipe vestite per benino-british ma con una collezione di perizomi da far invidia a Paris Hilton (quando si ricorda di metterlo), i soliti tizi in blazer striminzito e occhiali alla Buddy Holly che scrivono per qualche alternativissimo magazine o disegnano loghi per uno studio grafico di Brick Lane. Sarà “…ma io tutto sommato qui in mezzo rimango il tipo innocente, sono qui perchè mi piace la musica e voglio vedere cosa succede in giro. Degli altri non saprei.
E si sa la odio la città e scambierei in qualsiasi momento le cose grandi e complicate con quelle piccole e semplici. La birra nella plastica fa sempre clamorosamente schifo e forse sono io che non ho più ben chiare le idee su cosa sarebbe il folk. Tant’è che ora che è perfino neo. Oltre che indie.
Dunque non è che ho sbagliato recensione è che i Mumford & Sons li ho scoperti così, perchè aprivano un concerto di Laura Marling. Che insomma si è capito che non sono un fan di lei e forse per induzione neppure di loro, certo è che per tutto lo scorso anno e il 2009 questa band, con giusto due esili EP alle spalle è stata pompata da un po da tutti i personaggi nella scena indie londinese. Tanto che nel 2009 eccoli che firmano con un etichettone come Island Records. Sono cose che in altre circostanze ai Veri Esperti di Musica potrebbero perfino dare fastidio, io invece che ormai ho l’occhio lungo lo vedo già da pubblico: questi – pinng! è il campanellino del micro-onde – sono già cotti e serviti per Pitchfork. D’altra parte, io esperto non lo sono e sospetto che pure se lo fossi l’esperienza me la farei confrontandomi con quello che si ascolta in giro, non quello che ho scaffalato a casa 10 anni fa.
Insomma un successo annunciato, bravi sono bravi e ora che ho tra le mani il cd confermo, anche meglio dal vivo. Va da sè che quando hai un armamentario di strumenti acustici, mandolini e chitarre varie, e dei vocalizzi gospel-soul a più voci cantati ad arte nessuna incisione sostituirà mai il feeling di un esibizione dal vivo.
“Sigh No More” insomma è un buon disco, ricorrono quelle atmosfere dolceamare come in “Little Lion Man”, dove le briose andature saltellanti degli arrangiamenti riescono a restituire ai testi malinconici una certa vibrazione positiva. E’ questa probabilmente una delle carte vincenti della band londinese, e anche quando scivolano verso gli arpeggi più malinconici delle ballate, riescono a non incupirsi mai troppo anche se quello che raccontano ha spesso il gusto amaro della perdita.
E’ un album che piacerà forse anche molto a chi ama incondizionatamente le atmosfere del folk, più volte però durante l’ascolto mi sembra tutto troppo perfettamente al suo posto, moto preciso, forse troppo studiato. Nell’insieme è come se mancasse quel pizzico di spontaneità e immediatezza nei slanci dei ritornelli come nelle ricorrenti scarne introduzioni giocate sulla voce sommessa e gli arpeggi delicati. E’ una ricerca dell’intimità che a parità di mezzi acustici per esempio riesce infinitamente meglio a Micah P. Hinson come a Will Sheff degli Okkervil River. Il gioco dei paragoni non mi è mai piaciuto, ma la mia impressione è che i Mumford & Sons paghino in buona parte la ‘sfortuna’ di arrivare su una scena come quella indie-folk decisamente saturata negli ultimi anni da dozzine di artisti più o meno validi. E rimane questa, lo ammetto poco poetica dato il contesto, legge del consumo: quando l’ offerta supera la domanda il sistema crolla. E ovviamente chi rimane a galla è solo chi sa veramente il fatto suo, sotto i squali faranno il resto finendo gli avanzi. Ci si trova un po costretti a scegliere, e per forza di cose dovendo tra Okkervil River, Micah P. Hinson, Page France (RIP), Bon Iver o The Felice Brothers mentre parto con una sola manciata di dischi per la famosa isola solitaria, a casa purtroppo tra quelli che lascerei ci sarebbero anche i Mumford & Sons.
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2. The Cave
3. Winter Winds
4. Roll Away Your Stone
5. White Blank Page
6. I Gave You All
7. Little Lion Man
8. Timshel
9. Thistle & Weeds
10. Awake My Soul
11. Dust Bowl Dance
12. After The Storm