Guardi alla discografia dei Black Heart Procession, leggi in sequenza i titoli degli album che dal 1998 ad oggi si sono succeduti, poi leggi il titolo di quest’ultima uscita ed è semplice intuire quale sia la linea seguita da “Six”. L’idea di ‘ritorno agli esordi’ si fa posto tra i pensieri prima ancora di premere play ed ascoltare il primo, doloroso affondo: “When You Finish Me”. Poche note squillanti di pianoforte e una cortina di violino che ingannano puntando a cose da Sigur Rós acustici, ma sono subito corrette dalla voce ruvida di Pall Jenkins. Un incedere lento, aria di epica tragedia, lo spettro sonoro coperto da vibrazioni basse e illuminato piano dallo strato di toni più alti.

Questa l’idea generale. Poi chiaro che non è così semplice, che ‘tornare agli esordi’ è un’operazione per forza di cose artificiosa se si decide di perseguirla in maniera scientifica. Si può guardare indietro, questo sì, ma abbandonare la propria storia, tutta, fino a ieri, non è possibile se non prendendo una decisione precisa e rigorosa. Un montatura. E il più delle volte non è una buona idea. I Black Heart Procession infatti non ci pensano nemmeno. “Six” segna il ritorno ai dischi ‘numerati’, è vero, ma segna anche e soprattutto la sesta tappa di un percorso più che decennale, in cui la band di San Diego ha cresciuto e coltivato una propria personalissima voce e non ha mancato di trascinarla poi verso lidi a volte inaspettati.

Già  l’incedere pesante e marziale di “Wasteland” rievoca certi toni duri del precedente “The Spell”, mentre la successiva “Witching Stone”, fluida, quasi chiara, guidata da una linea di sinth sullo sfondo, sembra voler ammiccare al controverso “Amore Del Tropico”, datato 2002. “Rats”, poi, si spinge un po’ più avanti, appoggiando parole claustrofobiche (I see rats with blood in their eyes) sopra una base ritmica sicura, infestata di grigi inserti rumoristici. C’è persino una sbandata grunge più avanti: una “Suicide” che non avrebbe sfigurato nel repertorio, per dire, degli Alice In Chains.

Ma la poetica dei Black Heart Procession è solida e ormai ben salda nelle mani della band, e Pall Jankins può permettersi di portare i suoi testi scuri sopra un arco di toni musicali oggi un po’ più vasto rispetto al passato. E’ un bene? Quando funziona sì, lo è. Ascoltando “Six” l’impressione è precisamente questa. Funzionano gli episodi che deviano dal percorso più conosciuto, e funzionano perchè quel percorso è ben marcato nella parte più “classica” del disco. Da ballate dolenti come “Drugs”, “Last Chance” e “Liar’s Ink” (Time won’t forget your lies / Time can’t forget your lies), dalle sagome scure che emergono in “Heaven And Hell” e “All My Steps”, dallo slo-core nero di “Forget My Heart” e “Back To The Underground”.

“Six” non si spinge più avanti di quanto i Black Heart Procession hanno fatto fino ad ora, ma è capace, con la consueta classe, la consuta sincerità  e una scaletta pensata in maniera intelligente, di mettere insieme un’immagine definita e precisa della band di San Diego oggi. Toni cupi, testi dolenti, un immaginario buio e tormentato. E’ quello che ci si aspetta, è proprio quello che serve.