Dopo il coinvolgente “Volver”, “Gli Abbracci Spezzati” appare come un esercizio formale molto ricco e ben costruito, dai contorni melodrammatici. E’ un film nel film. Il tema del doppio attraversa l’intera opera, dal punto di vista narrativo e formale, sin dal titolo: l’abbraccio, come momento in cui due identità si uniscono, è destinato a spezzarsi irrimediabilmente. Oppure no. Morire fusi in un abbraccio è il sogno dei protagonisti Mateo (Lluis Homar) e Lena (Penelope Cruz). Questa fusione auspicata dai due amanti è raccontata da Almodovar in uno dei momenti più intimi del film: la sequenza in cui l’abbraccio dei due protagonisti è il riflesso speculare dell’abbraccio eterno degli amanti del film che Mateo e Lena stanno guardando stesi sul divano. La scena è quella di Viaggio in Italia, di Rosselini, in cui vediamo il ritrovamento dei corpi pietrificati di una coppia sorpresa dalla lava del Vesuvio, a Pompei. Anche Mateo e Lena attraversano un evocativo paesaggio vulcanico a bordo di un’utilitaria rossa, elemento e colore topici nella cinematografia di Almodovar.
Doppi sono anche i nomi dei personaggi: Mateo Blanco-Harry Caine, Lena-Severine, Ernesto-Ray X, personaggi che rifiutano la realtà e s’inventano una nuova esistenza.
Ma l’occhio, lo sguardo, l’immagine sono il vero focus del film. La macchina da presa sta sempre addosso agli attori, con primissimi piani e particolari. C’è un regista (Mateo Blanco) che gira una commedia, Ragazze e valigie (un ritorno alla prima cinematografia di Almodovar); c’è un ragazzo (Ray X) che ne spia i retroscena con una videocamera; c’è un uomo che guarda le immagini rubate di Ray X. L’oggetto-feticcio a cui lo sguardo dei tre è rivolto è sempre lo stesso: Lena, sottoposta a una seduta continua di metaforiche radiografie, fino al momento in cui vere lastre mostrano le fratture di un corpo usato, sfruttato e leso. Penelope Cruz, oggetto-feticcio anche dello sguardo di Almodovar, qui incarna due icone del cinema, Audrey Hupburn e Marylin Monroe. Del resto nel film le citazioni sono continue, esplicite e forse eccessive: da Friz Lang a Fellini (“Otto E Mezzo”), da Louis Malle (“L’Ascensore Per Il Patibolo”) a Tonino Guerra, così come le autocitazioni (“Donne Sull’Orlo Di Una Crisi Di Nervi”).
Quello che Almodovar ribadisce per tutta la durata del film è la valenza dell’immagine e della sua (in)consistenza. L’immagine può travalicare i contorni di uno schermo per (s)materializzarsi con ciò che è al di qua dello stesso, rimanendo sempre all’interno di uno schermo più grande, in un gioco di scatole cinesi senza fine. Suggestiva è la sequenza in cui Lena doppiando se stessa smette di recitare e rivela la verità . L’immagine può farsi ricordo, come testimonia l’inquadratura del bacio tra i due protagonisti, uno di quei baci che gli innamorati si danno per inerzia e che per Mateo, diventato cieco, diventa un ricordo da catturare con le mani. L’immagine per un regista è tutto, per un non vedente il ricordo è qualcosa di più: Mateo parte da questo ricordo per ricostruire il suo film e la sua vita, indissolubilmente legati. Nell’ultima fatica di Almodovar il dispositivo cinema si fa, quindi, più esplicito che mai. Questo è un film che parla di come un’opera cinematografica nasce e cresce, dalla sceneggiatura al montaggio, sottintendendo, forse, quanto la distribuzione nelle sale sia poco importante rispetto alla realizzazione del film stesso. I film bisogna finirli, anche alla cieca è la battuta con cui il regista Mateo-Pedro chiude il film.