Ennesima trasposizione del classico letterario “Il Ritratto Di Dorian Gray” di Oscar Wilde – capolavoro del decadentismo di fine ottocento e vera e propria bibbia dell’edonismo- ad opera di Oliver Parker, che sembra avere una predilezione particolare e una sottile ossessione per l’eclettico autore inglese, avendo già portato sul grande schermo le commedie “Un Marito Ideale” (1999) e “L’Importanza Di Chiamarsi Ernesto” (2002).
Le trama assai nota, ambientata nella Londra vittoriana del XIX secolo, narra delle vicende personali di Dorian Gray (Ben Barnes), un giovane dalla straordinaria bellezza e purezza d’animo, il quale, proprio in virtù del suo straordinario fascino viene ritratto dal celebre pittore e amico Basil Hallward (Ben Chaplin) che nutre segretamente dei sentimenti per lui. Lord Wotton (Colin Firth) un cinico edonista privo di morale e dedito alla dissolutezza, diventerà il mentore che plagerà l’animo ingenuo di Dorian, iniziandolo al culto della bellezza ed i piaceri della vita.
Parker ha l’indubbio pregio di amare la letteratura e di rispettarne le ambientazioni rigorosamente riprodotte, ed in quest’ultima fatica accentua le tinte cupe ed oscure del romanzo, calcando la mano sulle atmosfere gotiche e decadenti della Londra vittoriana. L’innesto di elementi horror è alquanto discutibile, ma di certo è funzionale alla cifra stilistica d’impostazione dark ““con la quale ha la possibilità di rivisitare le sue radici cinematografiche- caratterizzata costantemente dalla presenza metaforica delle tenebre, ottimamente sviluppata dalla curata fotografia di Roger Pratt (“Chocolat”, “Brazil”) sulla quale s’interseca la colonna sonora di Charlie Mole (“St. Trinians”), che mantiene alta la tensione per tutta la pellicola con il solo difetto di anticipare con il sonoro le scene più cruenti.
Nel film del regista britannico, Dorian ha lo sguardo gentile ed i gesti eleganti del giovane Ben Barnes (“Le cronache di Narnia: Il principe Caspian”) che ritrova sul set quel Colin Firth (“Il Diario Di Bridget Jones”, “Love Actually”) con cui ha già recitato in “Un Matrimonio All’Inglese” di Stephan Elliot, affinando la complicità rodata nella pellicola precedente.
Ma se da un lato la scelta di Firth nei panni di Lord Wotton è risultata congruente, ripagata da un’interpretazione maiuscola – una delle migliori di sempre per l’attore inglese- a suo agio nel ruolo machiavellico del cinico esteta, dall’altro, il pur generoso Barnes appare sovrastato dall’imponenza del personaggio, risultando poco incline a dare quello spessore e quella sensualità tumultuosa, necessaria al ruolo diabolico di bello e dannato per antonomasia, nonostante se la cavi più che discretamente nella prima parte, alle prese con un Dorian ancora vergine e puro, dal fascino immacolato, in un tono sicuramente più adatto alle sue corde.
La regia precisa e di ampio respiro di Parker viene penalizzata da una sceneggiatura scritta dell’esordiente Toby Finlay, indecisa tra l’assoluta fedeltà al romanzo -quasi al limite dell’illustrazione per buona parte della narrazione- che poi tradisce la fonte con una forzatura esecrabile: l’aggiunta del personaggio di Emily (Rebecca Hall), fantomatica figlia di Lord Wotton; espediente che non riesce a risollevare le sorti di una pellicola in cerca costantemente di una chiave di lettura moderna, aspirata ma mai raggiunta.
L’esibizione del culto religioso della bellezza, che negli intenti doveva proporre una riflessione attuale sul suo potere e la sua caducità , s’infrange con l’esibizione volitiva di aforismi wildiani accattivanti ed effetti speciali superflui.