Ci si potrebbe chiedere se, scelti gli ingredienti giusti, possa essere sufficiente seguire alla perfezione la ricetta di un grande cuoco per sfornare un piatto appetitoso. E posta la faccenda in questi termini, la risposta potrebbe essere positiva. Se vi è capitato di cimentarvi con ricette d’alta cucina, la cura del dettaglio e della preparazione è spesso la strada giusta per ottenere un buon risultato. E comunque sia, non è mai così facile e scontato come sembra.
Se invece da bravo cuoco domestico, nonchè preciso e fedele esecutore, si volesse diventare uno chef ricercato ed apprezzato, capace anche di improvvisare ed elaborare con estro e gusto, allora di strada ce ne vuole ben di più, perchè fatti propri i rudimenti e le tecniche ci vuole quella capacità e quella vena che non tutti hanno. E magari anche un piccolo e personale segreto da non svelare mai.
I Local Natives, quintetto californiano di giovani e simpatici ragazzi, sembrano aver puntato, per il loro disco di esordio, sulla mossa di selezionare elementi e riferimenti che sicuramente, nel panorama indie degli ultimi mesi, possono essere considerati di prim’ordine. Da una parte troviamo le melodie armoniche e gli impasti vocali dei momenti più riusciti dei Fleet Foxes e dei Grizzly Bear, rinvigoriti da una componente ritmica spumeggiante che richiama quella che gruppi come i Dodos o i Vampire Weekend hanno sviluppato e proposto nelle loro prime uscite discografiche. Una bella shakerata al tutto ed ecco per le vostre orecchie un piatto pronto e tutto sommato ben riuscito.
Dodici ottime canzoni, piccoli bocconi pop elaborati su melodie immediate e ben costruite, giocati con attenzione e sapienza su cambi di ritmo e di massa sonora, alternando pause lievi e rarefatte a momenti di lucida follia e di sfrenato entusiasmo. Facile innamorarsi della perfezione di “Airplanes”, rubata di nascosto ai Grizzly Bear, o della stupenda ballata dai sapori west-coast di “Who Knows Who Cares”, introdotta da un piano che ritroviamo anche nell’incantevole “Stranger Things”, lieve ed ammaliatrice. Impossibile restare impassibili alla ritmica saltellante e agli intrecci di voci e chitarre alla Wild Beasts di “Sticky Thread”, o non restare affascinati dalla ricercata composizione di un brano come “Camera Talk”, una delle tracce più riuscite del disco con le sue impennate “in levare” dove violini e tastiere completano un quadro sonoro già piacevole in partenza.
Ritmiche tribali, ma non funky, come quelle che citano anche i Talking Heads nella cover “Warning Sign”, forse troppo delicata per reggere il confronto, accompagnate come si diceva a linee melodiche incentrate su un canto (forse troppo?) spesso corale, come nella migliore tradizione americana dai Byrds o dai Beach Boys in avanti.
“Gorilla Manor”, che deve il suo titolo al nome della casa dove i cinque convivono, una specie di piccola comune dove riescono a sfruttare tutti i momenti possibili per sviluppare le loro idee musicali, non è un disco difficile da apprezzare, perchè ha il pregio di catturare sin dal primo ascolto. Un buon debutto, dove manca sicuramente un pizzico di originalità in più, una dote che sembra ormai molto difficile ritrovare in questi giorni. Aspettiamo di vedere se, scaldati i muscoli e mostrato le loro capacità tecniche e compositive, avranno il talento necessario per staccarsi dagli illustri riferimenti che, per ora, sembrano un po’ troppo evidenti.
Speriamo che i cinque si spingano un po’ di più sulla strada che, dal cuoco fedele all’ottima ricetta proposta, li fa avvicinare alla capacità culinarie di uno chef che amalgama il tutto in modo inedito e introduce quel tocco personale e segreto che fa la differenza.