Ci doveva pur essere qualcosa dietro al debordante e coinvolgente lirismo di “Amabili Resti”, il grande ritorno di Peter Jackson alla regia, dopo quattro anni di assenza.
Il regista neozelandese doveva guarire da quella bulimia visiva che lo aveva irrimediabilmente colpito dopo la saga de “Il Signore Degli Anelli”, e che aveva raggiunto un punto di non ritorno con “King Kong”: già leggere la sua firma dietro un esperimento low-budget come “District 9” poteva essere un segnale incoraggiante.
Eppure, per capire il segreto di questa definitiva rinascita bisogna guardare il nome del produttore: scoprire che è Steven Spielberg significa darsi già parecchie risposte circa questo piacevole nuovo indirizzo della sua poetica.
“Amabili Resti” cerca infatti di fondere l’ansia visiva di Jackson con un cinema fatto di sentimento: le ferite vive ed aperte dal limbo in cui la protagonista viene confinata dopo la sua morte, dalla sua voce over carica di una sfumatura di rimpianto, di un’emotività incontrollabile; la fotografia bruciata (come fosse una delle tante eastmancolor che si scattava quando era in vita) della realtà , e la freddezza digitale degli effetti creati dalla WETA, non sempre così poderosi da essere del tutto giustificati.
“Amabili Resti” si gioca su questo equilibrio, spesso confuso, tra due mondi inconciliabili e difficilmente comunicanti: dopo un inizio rigoroso e segnato dalla provvisorietà dell’ineluttabile perdita, il film si lascia andare – a volte in modo vincente, a volte in modo fortunoso – ai salti vertiginosi tra questi due modi diversi di intendere il cinema.
Qui, sono anime opposte che si incontrano poche volte, in momenti che hanno del miracoloso: quando Susie guarda la sorella minore che da il suo primo bacio (nascondendo un po’ di invidia nella sua commozione, mentre la sua amica mangia dei pop-corn, come se stesse al cinema), o quando nell’esaltante finale si prende quello che gli era stato tolto, il suo primo appuntamento con il ragazzo dei suoi sogni, che le era stato strappato dal suo triste destino.
La giovane Saoirse Ronan è stupefacente, e riesce ad entrare perfettamente nell’indecisione di una ragazza strappata troppo presto a quello che la vita le aveva promesso: è certamente aiutata dal racconto in prima persona, e da una sceneggiatura che – per il tramite della detection, pista che viene poi sconfessata a sorpresa proprio all’ultimo, quando è sul punto di essere risolta, per abbandonarsi ad altre derive di ricomposizione e di perdono – tiene viva l’attenzione dello spettatore.
Proprio la sua condizione di non trapassata – mai patetica fino ai livelli di “Ghost”, ma sempre calibrata in quella direzione – di essere in mezzo a due mondi, diventa lo specchio del cinema di Peter Jackson, mai definitivamente compiuto eppure di nuovo vivo e promettente.
Qui, l’indefinitezza assume però dei picchi non trascurabili, e il regista è bravo a cambiare il punto di vista, come se il suo film fosse visto da soggettive differenti, sempre calibrate dal punto di vista dei personaggi: che sia l’occhio del mostro – il banale vicino di casa – che sia quello del padre (la figura più strettamente spielberghiana del film), quello della sorella o quello del regista libero di esprimersi in entr’acte slegati eppure efficaci.
In questo senso, la sequenza del centro commerciale (Susie che guarda il ragazzo, la nonna che guarda Susie, il regista che guarda tutte e due, e sullo sfondo c’è lo sguardo altro dell’assassino: se non fossi stata troppo concentrata a guardarlo, mi sarei accorta che c’era qualcuno che mi stava piando…) è esemplare.
Forse, “Amabili Resti” eccede troppo nei simbolismi, ma è un vizio che gli si concede volentieri: la metafora del pinguino nella sfera di vetro, o quella dei ricordi trattenuti nelle fotografie, momenti che devono essere lasciati andare, per vivere il presente o l’altrove, contribuiscono a dare alla fame incondizionata d’immagini un obbiettivo umano, e squisitamente cinematografico.