E’ passato quasi un anno, da quando “Il Profeta” si fece ad ammirare al Festival di Cannes e vinse il Gran Premio della Giuria: durante questo intervallo di tempo, la sua fama era cresciuta in modo esponenziale – nove premi Cesar, una candidatura all’Oscar come miglior film straniero – rispetto al timore di non riuscire mai a vederlo sugli schermi italiani.
Il film di Jacques Audiard è infatti un piccolo miracolo: raramente si è visto un film europeo capace di unire lo sguardo autoriale con le regole e i codici del film di genere, senza che nessuna delle due componenti riuscisse ad essere preponderante sull’altra.
Anzi, ne “Il Profeta” non c’è competizione tra queste due anime, e la prospettiva di Audiard si muove in bilico – ma sempre felicemente a suo agio – tra l’approccio semi-documentaristico e quello esclusivamente narrativo, fino a confezionare un racconto di due ore e mezza che resta sempre vivo e capace di catturare l’attenzione, attirata dalla polivalenza delle immagini.
Come se al regista – allo stesso tempo e senza particolari preferenze – interessassero sia le dinamiche sociali ed umane di un film sulle carceri, sia gli stereotipi del film carcerario: in questo modo Il profeta è sia un film sulle condizioni delle prigioni francesi, sia un film sulla solita ascesa del delinquentello fino al rango di re del crimine.
La lotta tra i musulmani ed i corsi – nei corridoi della galera come nelle strade delle città francesi – è sia un’analisi sociale su diversi modi di intendere il crimine, sia il pretesto per allestire lo schematismo della guerra tra bande.
Ogni inquadratura de “Il Profeta” di Audiard si esalta in questo doppio valore: è documentaria e spettacolare, è evidente ed artificiosa, e tutto il film viene percorso da un senso di potenza che stupisce chi la guarda.
Il film inizia con il protagonista – un islamico di seconda generazione – condannato a sei anni di detenzione, è ridotto ad un barbone, scrive a fatica in francese ed è il bersaglio di tutti i veterani del suo blocco: le scelte di ripresa di Audiard sono quelle di un film sociale, sono libere e a mano, vicine al volto del protagonista, attente a collocarlo nel contesto umano in cui viene a trovarsi, determinate a coglierne le dinamiche, prive di uno sguardo morale, assolutorio, o indulgente.
Tuttavia, la stessa trama delle relazioni – lo sguardo dall’alto dell’anziano capo dei corsi, che comanda il cortile, il contrabbando e le docce – viene tessuta con tanta cura proprio perchè è quella che Malik dovrà scalare per chiudere il percorso tipico del gangster-movie: la novità de Il profeta è proprio il modo che ha Audiard di sporcare l’obbiettività distaccata del film di cronaca con una referenzialità che porta lo spettatore a ridurla alle proprie precedenti esperienze cinematografiche.
Tra un realismo che lascia a disagio (la sequenza del primo omicidio) e squarci allucinatori (le visioni del protagonista, che gli valgono il soprannome da cui deriva il titolo), Audiard dimostra una cosa che si poteva intravedere già in Nemico pubblico di Michael Mann: il digitale elimina le scene madri, e la sua immediatezza spoglia i momenti chiave della preparazione drammatica che dovrebbero avere nella grammatica classica.
Momenti come quelli dell’esecuzione nella jeep colpiscono proprio perchè improvvisi, risolti in fretta e quasi in diretta, come sembra essere una peculiarità di questo nuovo modo di fare il cinema: la stessa inesperienza degli attori sembra funzionale al modo in cui la storia li cala in personaggi, modelli e tradizioni molto più grandi di loro: come se il giovane Tahar Rahim si sentisse a disagio non tanto per le difficili sfumature del suo ruolo, quanto per il modo in cui il suo Malik sia costretto a confrontarsi con la misura epica del suo percorso alla “Scarface”.
Audiard maneggia le sfaccettature e non si dimentica mai di alimentarle: con una consapevolezza che fa gridare al capolavoro.