Il giorno dopo arriva la notizia: i Godspeed You! Black Emperor tornano a suonare dal vivo. Giusto ora che ci eravamo dimenticati di loro, gli A Silver Mt. Zion avevano appena suonato e avevano ucciso tutti, tutti verso casa con il cuore in mano e poi chissà  dove l’hanno lanciato finito il concerto, forse tra i binari della stazione, o a qualche spacciatore, a qualche barbone, all’amante: di sicuro non l’hanno rimesso al suo posto. Di martedì dunque l’apoteosi e l’estasi, eppure l’Unwound è pieno.

“I Built Myself A Metal Bird” risuona verticale e avvolge tutte le facce nella sua violenza. Il cantato diventa angosciante, quasi come una mano che non afferra, che si arrabbia: e lui si distacca, a mezzo metro dal microfono Efrick Menuck canta e la voce trapana lenta. Si fa violenza vera, ma la melodia interrompe e viene voglia di toccarsi le tempie togliendo di mezzo la pelle, poi tutti battono la testa a lato, si muovono a tempo, la canzone diventa quasi un ballo dell’est. Il non-frontman dichiara che i suoi ascolti preferiti sono i Coldplay e che vorrebbero avere come opening act per questo tour i My Chemical Romance, risate, nessuno lo ricordava così simpatico e ciancione.

Comincia l’avvolgente “There Is A Light” dove il cantato si fa impastato eppure travolgente, è un piacere sentirlo urlare, le mani che si muovonoa tempo in movenze da geisha – gli occhi che guardano il cielo e tutti i componenti del gruppo travolti dalla metafisica apoteosi della felicità  – svolgono il loro compito a tempo, tutti in semicerchio, sembra la conclusione di un film di Wilder, solo che il protagonista urla mentre tutti sorridono e tu che guardi non capisci nulla, ti chiedi chi sia Billy Wilder, ti confondono. Che faccio? Nessuno fa nulla grazie a Dio, facciamo gli spettatori. Potrebbe essere l’ultimo spettacolo, potrebbe essere l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, musicato e ben digerito tra desolazione e urli. “1.000.000 Died To Make This Sound” stravolge tutto, la sua invidiabile trascendenza colpisce in tutto il suo terrore. I due angeli violinisti di nero vestiti intonano un leggero gospel dove invece Menuck stravolge, ricompone raccontando incoscienza e dolore.il rumore si propaga e il cantato diventa insopportabile monotono per rinchiudersi in un riff leggero, e attorno il silenzio. Sembrano forse un po’ svogliati gli A Silver Mt. Zion, disponibili ma svogliati, eppure incantano. I riverberi di “1.000.000”…” ancora rintronano e Menuck scappa, giacca in mano e fuori al freddo.

La gente li richiama, lui è fuori sembra perso, tutti tornano sul palco, lui intontito quasi inciampa sul palco sorride, parte “Microphones In The Trees”. Melodica e travolgente tocca punte espressioniste ancor più che su album, ti soffia via insistendo. Il finale in calando non sorprende, come tutte le altre mini sinfonie della serata, gli occhi socchiusi di Menuck che attendono rumore bianco. Smettono i violini, apre gli occhi, fissa una telecamera in prima fila. Si congedano. Viene voglia di salire con loro sul tour bus e seguirli. Tutti ci rinunciano ma sorridono intontiti.

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