Circa un anno fa, avevamo lasciato Jón àžor Birgisson, per gli amici Jónsi, ad animare, insieme al compagno Alex Somers, il progetto Riceboy Sleeps: disco di soffusa elettronica rumoristica ambientale, dall’artwork ricercato e relativa tiratura limitata. Ma l’attività del cantante e chitarrista-con-archetto dei Sigur Rós non era destinata a fermarsi tanto presto, chè già allora era annunciato per Jónsi l’arrivo di un album solista. Si sono susseguite voci e scarne notizie, qualche immagine e poche anticipazioni. Quale sarebbe stata la direzione intrapresa dal disco, in ogni caso, non era dato sapere: una versione semplificata e più immediata delle atmosfere del gruppo islandese, magari sulla scia della svolta realizzata con l’ultimo album “Meà° Suà° à Eyrum Vià° Spilum Endalaust”, oppure un tuffo verso il mondo dell’elettronica più pacata, simile a quello da poco prodotto a nome Jónsi & Alex, o ancora qualcosa di completamente inaspettato, forse un momento intimo che si abbandona a suoni acustici ed eterei in stile pre-war folk.
La prima ipotesi, ora che il disco è disponibile nei negozi, si è rivelata la più azzeccata, mentre la terza è del tutto da scartare. Della seconda qualcosa (ma non troppo) si può in effetti tenere. Prendiamo “Go Do”, traccia che apre l’album e singolo che ne ha anticipato l’uscita: i primi secondi accennano a un sottile tappeto elettronico che fa subito venire in mente il nome Màºm, poi incalza un arrangiamento di flauti e violini, e subito dopo un un tempo serrato di tamburi segna la vera partenza del brano. I paralleli con “Gobbledigook”, primo singolo estratto dall’ultimo album dei Sigur Rós, sono ben riconoscibili. Jónsi muove esattamente dalla nuova dimensione scovata dalla band islandese: lo spirito etereo e sognante che qualcuno ha ribattezzato ‘icelandic pop’ racchiuso tra i confini stretti della forma canzone.
E l’idea funziona. “Go Do” riesce a conquistare un equilibrio stabile tra il falsetto candido di Jónsi, una lunga serie di suoni delicati e un andamento deciso, in tutto e per tutto pop, che con ogni probabilità nemmeno sfigurerebbe se gettato a sorpresa in mezzo a qualche dancefloor affollato. La successiva “Animal Arithmetic”, così come “Around Us”, replica la stessa formula, accelerando ulteriormente la frenesia del ritmo e la girandola di suoni e soluzioni. Fuori dai terreni conosciuti della propria band, Jónsi si concede arrangiamenti complessi nella quantità di strumenti e nell’intreccio dei suoni (orchestrali, vocali, elettronici), che sempre riescono però a rendersi immediati e diretti. La quadratura del cerchio è “Boy Lilikoi”: una struttura pop esemplare che riesce a racchiudere, nel suo spazio cadenzato, paesaggi larghi e luminosi, come una di quelle piccole scatole che, fatto saltare il coperchio, lanciano senza preavviso coriandoli e nastri colorati.
Poi non mancano, chiaramente, i momenti più pacati, in cui la distanza con i Sigur Rós si riduce sensibilmente (“Sinking Friendships”, “Kolnià°ur”, “Grow Till Tall”), guardando magari a soluzioni quasi del tutto acustiche (“Hengilás”). Anche in questa altra faccia del disco, però, Jónsi non rinuncia mai a metterci del suo, giocando soprattutto con gli arrangiamenti: “Tornado”, potrebbe essere una traccia di “Takk…” (penultimo album targato Sigur Rós), se non fosse per certe, decise, soluzioni ritmiche che saltano fuori nella seconda parte del brano.
Non è possibile (e probabilmente nemmeno sarebbe del tutto corretto) guardare a “Go” senza considerare quanto fatto dalla band di cui Jónsi è frontman e cantante. E atmosfere e soluzioni dei Sigur Rós riempiono per buona parte questo esordio solista. D’altro canto, però, non si può non riconoscere a Jónsi il merito di non essersi seduto sugli allori e di aver invece approfittato della dimensione differente che fare un disco da solo concede, partendo da strade conosciute per guidare verso terreni finora non battuti.