Un velo rosso ondeggia alle pendici di un colle, una ragazza bionda, capelli al vento e faccia nascosta, si inoltra sul monte brullo.
In sottofondo suoni sintetici, tastiere pulsanti, pad che scandiscono il tempo taglienti come rasoi. è solo uno dei numerosi teaser che anticipa l’esordio discografico dei Golden Filter, duo australo-americano con base a New York, ‘next big thing’ della scena indietronica osannati dalla blogosfera internazionale.
In due, Penelope e Stephen, voce e produzione. Come i Goldfrapp ma più misteriosi, come i The Knife ma più mistici e sensuali. Provenienti entrambi da esperienze musicali precedenti, il duo, all’attivo dal 2008, dopo l’uscita di un paio di singoli e numerosi remix (Peter Bjorn and John, Cut Copy e Little Boots solo per citarne qualcuno) pubblica il proprio debutto “Voluspa” (titolo ispirato da un’opera epica celtica) in una maniera quantomeno insolita: leakkato il disco, per placare le perdite la band mette immediatamente in prevendita l’album inserendo in 20 copie random delle polaroid realizzate personalmente e, udite udite, 20 attestati di proprietà di una stella. Quando si dice un’operazione commerciale di qualità .
I Golden Filter non inventano niente di nuovo ma rimaneggiano in tempo limite una delle correnti più bistrattate della storia della musica, la disco-music, impreziosendola di una produzione ricca, attenta all’occhio dei dancefloor come all’appeal sul pubblico di nicchia. Nessun particolare è tralasciato; l’immagine bucolica ed enigmatica della band, da sempre coltivata sul web (i due hanno un blog fotografico non indifferente) come dal vivo, va a braccetto con la musica proposta: violini tristi, tastiere fredde e testi astratti la fanno da padrone.
Il disco ha inizio con un accordo di violino che apre la strada alla voce sensuale di Penelope, accompagnata da percussioni e tastiere tintinnanti: come da titolo, “Dance Around The Fire” porta alla mente la processione di un rito, una cerimonia d’iniziazione per l’ascoltatore.”Hide Me”, terso singolo estratto, potente di un synth che catapulta l’orecchio verso strofe a tema fotografico è una cavalcata elettronica, un frontale tra un Moroder dei tempi d’oro e una Bat For Lashes di oggi. “Look Me In The Eye” torna alla metafora fotografica, arricchendosi di linee di basso e di un ritornello killer; “Moonlight Fantasy” e “Stardust”, deboluccie, sono intramezzate da “Solid Gold”, primo singolo della band, che suggerisce immagini patinate d’antan e lustrini, e “The Underdogs”, synth-pop malinconico ritmato da percussioni tribali. “Frejya’s Ghost”, forse la miglior canzone del pacchetto, si basa sulla classica struttura disco: tastiere estasianti, battiti, voce suadente. Una canzone elegante con un titolo improbabile, praticamente una hit assicurata.
L’intermezzo “Kiss Her Goodbye” e la lenta “Nerida’s Gone” spezzano la tensione, un’atmosfera sognante guida verso la traccia finale, “Thunderbird”, solenne chiusura, conclude in versi parlati fortemente suggestivi e nell’esplosione di tamburi impazziti. Termina così, com’era cominciata, la cerimonia mistica della reincarnazione della disco.