Che The Niro fosse un elemento magnificamente discordante col panorama musicale italiano, era evidente fin dall’ascolto dei primi accordi che accompagnarono quel piccolo grande miracolo che fu il suo disco d’esordio. Un talento cristallino damascato da qualità  vocali fuori del normale, tanto superbe da farlo accostare subitaneamente alle più fiammanti ugole della storia del rock.

A due anni di distanza era lecito attendersi qualcosa di altrettanto sconvolgente ed invece il sussulto sulla sedia questa volta non arriva. Premettiamo da adesso che ci troviamo al cospetto di un disco di alta qualità , in bilico tra virtuosismo tecnico e circolarità  prepotentemente pop, un dolce mix di chiaroscuri, di luci che giocano a rincorrersi tra le bizze di nuvole svogliate scosse dal vento per acquattarsi languide tra scorci di pelle arrossata.
Davide Combusti sa bene come si scrivono canzoni, siano esse chiassose, come nel veloce ed irresistibile saliscendi di “Johnny” ad esempio o prettamente cantautorali, come quando in “Stop It” fa riverberare in maniera impressionante il ricordo dei paesaggi abbozzati dalla leggera profondità  di Elliott Smith, senza risultare un triste emulo o un misero plagio del menestrello inglese. Anzi, quello che di volta in volta sbuca fuori dalle casse è una nuova via aperta dal cantante e polistrumentista romano, una personale interpretazione e rivisitazione dell’oscurità  dell’anima e delle stranezze umane che accompagnano il nostro andare quotidiano.

Se si guarda alla forma “Best Wishes” non manca di nulla, è un album costruito perfettamente, con una padronanza dei mezzi addirittura superiore al disco precedente, zeppo di screziature che ne esaltano la struttura ed il ritmo specialmente se ascoltato amorevolmente in cuffia. Vengono riprese e riarrangiate vecchie composizioni ““ “When Your Father”, “He’s A Pray” e la splendida “Post Atomic Dawn” ““ ma nonostante vi sia molta carne al fuoco, il tutto perde leggermente di forza se paragonato con “The Niro”, impedendo al disco di “‘urlare’ la sua prepotenza, di stordire l’aria con quel senso di virulenza primordiale che scorreva elettrica un paio d’anni or sono. Troppa continuità  con sonorità  esplorate precedentemente impedisce a questo album di essere un’entità  a sè stante, finendo così per sembrare più una seconda facciata dell’esordio che altro.

Però alla fine di tutto, delle chiacchiere e delle pacche sulle spalle, delle invidie e dei rancori, delle pretestuosità  e delle parole sparse al vento, albeggia furente quella voce che come un lazzo t’afferra alla gola sciogliendo i suoi nodi in un cuore caldo fatto di promesse e sorrisi timidi che tagliano fiduciosi visi incarogniti, un balsamo profumato di velleità  cosmiche e morbide spume che come una dolce parola prima di addormentarsi, rincuora e riscalda come nient’altro al mondo.