In un clima abbastanza bizzarro per l’industria discografica le regole di marketing cambiano da un momento all’altro, governate dal gusto popolare, pronto a cambiare ogni stagione. E così ciò che prima avreste definito indipendente diventa pop, novella macchina mangiasoldi pronta a scalare le classifiche. Le etichette, ipnotizzate da enormi banconote strette in skinny jeans e camicie a quadri, sono pronte finalmente a investire in nuovi, interessanti prodotti (ah, devo specificare che non parlo dell’Italia?).
Questa è l’atmosfera in cui emerge Marina Lambrini Diamandis, in arte Marina & the Diamonds, 25enne gallese di origine greca, al suo debutto discografico su una major in seguito a una sfilza di EP e singoli autoprodotti. Le sonorità di questi primi lavori, musica pop fuori dagli schemi, lontana anni luce dall’electropop danzereccio di moda al tempo in patria britannica, esaltò non poco il web, portando la blogosfera ad azzardare paragoni con la regina del pop alternativo inglese, una tranquilla signora di mezza età di nome Kate Bush. Salvo per la tonalità vocale (altissima quella della Bush, più bassa quella di Marina, capace tuttavia di dar del filo da torcere agli arabeschi vocali della maestra) il paragone non risulta poi così azzardato, specie dopo l’ascolto del convincente “The Family Jewels”, premiato dalla critica come dalle vendite (è già stato certificato disco d’oro).
Interessante è notare come, nonostante il passaggio ad una major, poco siano cambiate le sonorità proposte dalla ragazza, sospesa tra suggestive ballate al piano e accenni sintetici, quasi ad esorcizzare uno stravolgimento della personalità a favore di più fruttuose metamorfosi. Al contrario, la produzione premia intensi brani provenienti dei primi EP (“Obsessions”, “I Am Not A Robot”) o vecchie demo già promettenti ai tempi di GarageBand (“Numb”, “Guilty”) accostandoli a nuove tracce più appetibili per la grande distribuzione (i singoli “Hollywood” e “Oh No!”). A un’ottima cura del suono corrisponde una buona scrittura dei testi, difficilmente banali e spesso sarcastici, come nei due sopracitati singoli. Hollywood infected your brain, canta in quello che avrebbe dovuto essere il lancio d’oltreoceano, trasformando la giocosa base in una cinica cerimonia sul sogno americano.
Se riuscirà a non “‘infettare’ il suo di cervello, auguriamo a Marina tutto il successo che si merita, insieme alla speranza che il denaro non devi il suo percorso artistico (Kate Bush docet).