Squarci sanguinolenti.
Urla ferine e sferragliamenti infernali.
Vomito rancido.
Adolescenze interrotte.
Incubi metropolitani.
Musica marcia, schifosa, putrescente. Anzi, non-musica. In due parole: No Wave.

Poche, pochissime testimonianze sonore sopravvivono a memoria di uno dei gruppi-manifesto di quello che fu, trent’anni or sono, il filone più crudo e diretto della cosiddetta scena No Wave, nata, cresciuta e spentasi in tempi brevissimi tra i grattacieli e i college di New York. Una manciata di scheggie di malessere ripescate dall’unico disco omonimo, da qualche misconosciuto 7″ e dalla compilation ideologica “No New York”; registrazioni rudimentali raccolte nell’opera-omnia “Everything”, per un totale di venti minuti scarsi di testamento musicale, durante i quali la profetessa del nichilismo assoluto Lydia Lunch e i suoi Jerks si muovono nel segno di una rottura assoluta con quanto è stato prima, inscenando su vinile un truce banchetto col cadavere smembrato di qualche secolo di storia musicale occidentale. Del passato sopravvive appena l’attitudine punk ““ solo quella – esasperata fino al limite più estremo nel martoriare gli strumenti piuttosto che suonarli; e se poi proprio si vogliono ricercare dei riferimenti, questi possono essere quel ‘white noise’ dei Velvet Underground o il marciume lisergico e stridulo di Captain Beefheart. Poc’altro, poichè la cesura è radicale: musica(?) epurata da ogni matrice di ascendenza rock ““ nel senso più ampio di questo termine -, flebili rapporti con la new wave, zero concessioni a qualsiasi apertura melodica.

Rumore bieco, colonna sonora da incubo con drumming ossessivo e sbilenco – un rullante e un piatto sono più che sufficienti all’uopo – sotto distorsioni a volumi immondi e slide anomali, il tutto mosso da una furia cieca e violenta. Su tale impianto sonoro fatto di spigoli e tensioni l’apatia della voce cantilenante della Lunch, ora strascicante ed algida, ora selvaggia ed indemoniata, che sputa fuori dallo stomaco storie malate di incesti (Daddy slaps your hand, he’s the only man / I’m a little girl in his little girl world da “Baby Doll”) e di infanzie rapite (No more ankles and no more clothes / little orphans running through the snow, da “Orphans”, forse il più celebre brano della band), non-favole di rifiuti urbani post-industriali figli dei più reconditi e malsani angoli della Grande Mela.

Piuttosto che la melodia è l’istinto a dominare brani che hanno la stessa durata di un’esplosione atomica, e lasciano ancora oggi il medesimo senso di devastazione e di angoscia: ogni strumento procede lungo una propria strada, per perseguire il fine ultimo della destrutturazione della forma canzone in qualcosa di indefinibile. Azzeramento del pubblico, azzeramento della canzone, azzeramento degli strumenti: quello che resta è l’artista, l’anti-musa Lydia Lunch, e i suoi versi decantati come un’annichilente nenia funebre sulle macerie fumanti della poular music.

La vita della band più psicopatica della No Wave è tanto breve quanto le composizioni che ci hanno lasciato: nati nel ’77, i Teenage Jesus cessarono di esistere dopo poco più di un anno. Dimenticati dai più, quei venti minuti di registrazioni saranno tuttavia sufficienti per farli divenire uno dei gruppi di riferimento per generazioni di musicisti a seguire.
Do you remember Sonic Youth, per dire?