Errore imperdonabile, verso il capo e verso i lettori, arrivare in ritardo con la recensione di un disco. Tanto più se questo, nel frattempo, è stato lodato a ragione un po’ dappertutto. Che altro di nuovo si può raccontare?

Avrete quindi sicuramente già  saputo della giovanissima età  di Avi Zahner-Isenberg, attorno alla cui sensibilità  artistica ruota tutto il progetto musicale degli Avi Buffalo. Tre anni fa, partenza con un gruppo liceale, una pagina su MySpace (…sempre sia lodato…), un paio di tracce registrate in solitudine e in libero (…che dire…) download, piaciute a destra e a sinistra. Lodi e un primo ingaggio, che spinge alla rapida ricerca di compagni di ventura. Tutto bene e allora altri concerti e la fortuna di trovare un amico con un buono studio di registrazione casalingo e qualche conoscenza interessante, niente meno che alla SubPop. Passa altro tempo e scorrono tante altre note ma l’inizio è questo, come lo racconta nel libretto del disco. Pochissime parole sulla musica e sulle influenze che l’hanno plasmata. Ma per questo parlano le tracce di un lavoro che non trovo altro che stupendo.

Immaginate il migliore rock classico americano degli anni “’60 e “’70. Nomi che a mio avviso brillano costantemente, persino nell’incasinatissimo universo sonoro attuale, come possono essere quelli della Band, di Neil Young e dei Byrds, ad esempio. Viene difficile pensare di poterne cavare qualcosa di interessante e attuale, qualcosa che alla fine non lasci la sensazione che l’originale fosse comunque meglio. Rilettura rischiosa e difficile, tanto più se ci viene proposta da un ragazzetto non ancora ventenne. Senza non gridare al capolavoro o al miracolo, a cui peraltro non crede più nessuno, la sensazione però è che il nostro ci sia riuscito.

Un po’ di sana follia, una visione distorta e distorcente della realtà  e della musica, una piccola lente deformante che ci restituisce tutto quello che vede e sente arricchito con forme e movenze attuali e inedite. Un pizzico di psichedelica e un tocco agrodolce che rivede le melodie dei suddetti giganti, ne asciuga a tratti i suoni, li scarnifica dove serve e li rimpolpa altrove. Sonorità  prevalentemente acustiche sapientemente intrecciate con lievi cavalcate elettriche, dove sono le corde delle chitarre e i tasti del piano ad imporsi sui ritmi comunque morbidi scanditi dalle percussioni.

E allora continuo con ingombranti paragoni pure per la voce, con il falsetto di Avi indubbiamente cresciuto nella stessa palestra dove si sono allenati, decenni fa, quelli di Robbie Robertson, Brian Wilson, Neil Young e Roger McGuinn. E anche se i confronti sono pericolosissimi e le distanze incolmabili, il nostro non ne esce con le ossa completamente distrutte. Le piccole sinfonie del disco sono ricamate dalla voce e dai cambi di tempi in modo abilissimo, la ricchezza di fraseggi è tale da lasciare ad ogni ascolto spazi inediti da esplorare in quello successivo. Dall’accattivante “What’s In It For?” alla sognante “Jessica”, dall’eterea west-coast di “Coaxed” alla dolce filastrocca di “Summer Cum”, in un continuo gioco tra torpore estivo e piacevole risveglio dei sensi.

Tutto già  scritto e già  letto? Bene comunque, vuol dire che anche voi, come il sottoscritto, siete già  tra i fan di questa stella nascente.