“Baby”, il nuovo disco dei Bosque Brown, indubbiamente non è un lavoro che possa fare scalpore. Lo conferma il fatto che, pur essendo uscito più di un anno fa in America, nel marzo del 2009, sono qui a parlarvene solo ora. Una parte della colpa, se di difetto si può parlare, me la posso prendere sicuramente io, sommerso come e più di voi da miriadi di uscite segnalate come imperdibili ed importanti ogni settimana, con l’ansia di non arrivare in fretta su dischi ottimi e meritevoli, compresso negli ascolti, concentrati nel tempo lasciato disponibile dagli impegni di lavoro e quelli di famiglia e amicizie.
E meno male, allora, che esistono ancora delle serie case discografiche che portano avanti, anche se limitate da seri problemi economici, delle politiche di promozione per alcuni nomi che ritengono validi e che non hanno goduto, spesso per strani scherzi della comunicazione globale, di risalto e di valorizzazione. Paradossalmente anche la distribuzione pirata aiuta molto a far circolare nomi nuovi con insistenza, giusto per spingere ed invogliare all’ascolto di un nuovo lavoro per valutarne meriti e difetti.
“Baby” allora è arrivato in principio come un nome sconosciuto proposto per una recensione, e la veloce ricerca di qualche informazione ha chiarito subito che poteva valerne effettivamente la pena.
Dietro il nome Bosque Brown, che ha origine da un fiume texano che scorre dalle parti di Stephenville, si nasconde in realtà Mara Lee Miller, cantante e compositrice di tutti i pezzi dei due album usciti finora sotto questa firma. Nel 2005 la ‘maternità ‘ dei brani era dichiarata fin dal titolo, “Bosque Brown Plays Mara Lee Miller”, mentre ora un succinto “Baby” nasconde una raccolta di pezzi che la vedono sempre come unica cantante e compositrice.
Dietro di lei un nome in particolare ci aiuta a delinearne le coordinate sonore, quello di Damien Jurado. Nel 2002, durante un tour da quelle parti, il nostro è entrato in possesso di una cassetta con alcuni brani e l’ha segnalata alla sua casa discografica. E viene naturale capire il motivo di quella piccola infatuazione, tanto le atmosfere risultano in sintonia con quelle del cantautore di Seattle. La si potrebbe definire come Americana. Oppure folk, country , gospel. O perchè no blues, tante sono le radici e le atmosfere che si ritrovano in questi pezzi. Come Damien, però, l’arrangiamento dà un valore in più e fa scattare una scintilla per la passione e l’innamoramento. è impossibile non essere sedotti dalla perfezione di pezzi come l’iniziale “White Dove”, dolce e soffusa in partenza, in un crescendo declamatorio ed epico, o da “So Loud”, dove la melodia immediata viene valorizzata dalla cura della strumentazione utilizzata e dalla misura che calibra alla perfezione i tempi di strofe e ritornelli. Ritroviamo la tradizione americana che passa per le ballate di Simon & Garfunkel, come nello splendido chorus di “Train Song”, o nel gospel intriso di incenso e perdizione di “On River”, dove aleggia tutto il tormento di un torrido inno primitivo. Niente di viscerale, ben inteso, perchè la tradizione chiesastica e pastorale della nostra resta evidente nella pulizia dei suoni e nell’approccio composto che pervade l’intero lavoro. Siamo abbastanza lontani dalla visceralità di una Scout Niblett o dalla spettralità di una P.J. Harvey dell’ultimo periodo, forse più prossimi alle delizie canore di una Cat Power in erba, alla classicità di una nuova Carole King, una Feist molto meno smaliziata e molto meno “pop”. Deve crescere, e l’importante è permetterglielo, con l’aiuto della nostra attenzione e del nostro apprezzamento. Non potrebbe essere altrimenti, perchè trovato il tempo per lasciarsi cullare da queste piccole delizie sarà difficile non restarne colpiti.
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2. Went Walking
3. So Loud Listen
4. On And Off (Part 1)
5. Texas Sun
6. Whiskey Flats
7. On And Off (Part 2)
8. Train Song
9. This Town
10. On And Off (Part 3)
11. Oh River
12. Phone Call
13. Soft Love