…come a dire”…fino adesso abbiamo scherzato”…
Giunti al terzo album in studio (se si esclude l’excursus strumentale di “Under An Hour”) I Menomena dimostrano non solo di essere dei giovani di belle speranze ma anche di saper fare buon uso del loro talento , consegnandoci un disco finalmente memorabile in tutte le sue parti. Insomma “Mines” rispetto ai suoi predecessori è finalmente un’opera completa, centrata ed anche più emozionante.
Non è per niente facile catalogare la musica del trio di Portland, infarcita di imprendibili, grotteschi sperimentalismi tanto quanto di intuizioni melodiche apparentemente sconclusionate e inconcludenti ma in realtà efficacissime. Questo è l’ “‘indie-rock’ che vorrei poter scoprire ed ascoltare ogni giorno: tanto minimalista per certi versi quanto profondo e intricato per altri, sempre sul filo di una inafferrabile obliquità che non rinuncia a mostrare un cuore fragile e appassionato. Si tratta di sghembe “‘Non-canzoni’ ammantate da una insolita e indescrivibile svagatezza che svelano piano piano, ascolto dopo ascolto, il loro inaspettato appeal quasi pop. Insomma oserei dire che i Menomena con “Mines” e i suoi avvincenti incastri strumentali sono stati in grado di predire e anticipare alcune evoluzioni che probabilmente il rock intraprenderà nel futuro. O forse rimarranno un caso isolato, chi lo sa, dato che la loro musica è sarebbe anche assai difficile da emulare. Infatti, nostante l’eccellezza della nuova opera, non è è di certo ben chiaro cosa sia lo stile Menomena, o almeno, non è immediatamente evidente. E questo in un certo senso è un bene”…è come un volto che sai nella tua mente che è bellissimo, ma di cui non riesci a descriverne i tratti.
Comunque sia, l’avrete capito”….Invece di limitarsi a rifare i giochini di tanti gruppi indie gli americani si spingono oltre, facendo incontrare addirittura soluzioni che definiremmo quasi prog o jazz (quando non etno!) con il rock alternativo più nobile (insomma qui si gioca nella lega dei Radiohead, degli Elbow, dei TV On The Radio, dei Flaming Lips“…). E’ interessante osservare lo sviluppo di certi brani, con quegli infarcimenti elegantemente bizzarri di suoni impertinenti e vagamente dolciastri, di schegge strumentali guizzanti ed evanescenti che hanno il compito di disorientare l’ascoltatore prima di stupirlo ancor di più con inattese, risolutive edificazioni di ammalianti strutture un po’ più corpose e definite, attraverso le quali si riesce a comprendere meglio l’impronta dell’anima che soggiorna dentro i complessi organismi di queste composizioni. I risultati sono spesso abbastanza differenti tra di loro: c’è la sorniona e un po’ “‘legnosa’ “Queen Black Acid” (una sorta di marcetta all’apparenza dimessa importunata di tanto in tanto da avvolgenti barriti di ottoni e chitarre), quindi si passa allo pseudo-hardrockismo imbevuto di funk cialtrone di “Taos” per poi trovarsi inaspettatamente al cospetto dell’energica ma anche romantica “Killemall”, il brano più bello tra tutti assieme a Intil, dolorosa confessione sentimentale che chiude il disco, mirabile esempio di alt-rock “‘totale’ e “‘oltre’ che si serve di struggenti arrangiamenti i quali presupporrebbero un climax orchestrale che però non avverrà mai, ed eleganti armonie vocali. Ci sarebbero altre tracce da citare come “Lunchmeat” con la sua spigolosa giocosità o la notturna, eterea (e pessimistica) “Tithe”, che si erge da una sottile, sognante coltre di piano e glockenspiel per poi assumere fattezze più solide continuando a mantenere una affascinante sinuosità “…ma ci fermiamo qui.
Ogni nuovo ascolto rivela qualche aspetto che durante l’ascolto precedente era rimasto nascosto, rendendo ogni volta il disco sempre interessante come la prima volta che lo si è scoperti. Direi che quest’anno hanno visto la luce pochi altri album esaltanti come “Mines”: non lasciatevelo sfuggire!