Romain Turzi è un compositore francese. Balena da anni in rivoli di indietronica che spiazzano l’ascoltatore prima di farti capire che la pasta è scotta. Nel senso che non fa niente di nuovo, ma lo fa con una passione che può sicuramente piacere. Avanti, a certi piace la pasta scotta no?
Sinceramente questo disco, intitolato B, dove i titoli delle dieci tracce sono città (tutte piuttosto grandi e celebri devo dire) che iniziano con la seconda lettera dell’alfabeto, ha le carte in tavola per essere annoverato tra i dischi più carini di questo 2010. Che poi non è ancora ora per dirlo. Lo vogliamo rendere chiaro: potrebbe esserci una piacevole connessione logica tra i nomi delle città e la musica, e in “Buenos Aires”, chiudendo gli occhi durante il pezzo, si possono senz’altro intravedere le tipiche immagini da documentario della ‘città che non dorme mai’. Luci ovunque, macchine che sfrecciano velocissime, grattacieli altissimi a contrastare la povertà straziante delle baraccopoli periferiche. E pensare che poco prima, in “Beijing”, sembrava che i Battles incontrassero i Black Sabbath durante le olimpiadi, stringendogli la mano con presa piuttosto tenace, grazie a riff che tagliano in due l’ascoltatore scintillando di doom e poi di elettronica-epica, un genere che non fa quasi nessuno. Un comparto sonoro potente, volutamente acido, tendente all’epico ma senza sforare nell’assurdo; lo conferma anche “Bombay”, orientaleggiante e piuttosto fast-paced, quasi una di quelle cavalcate alla Muse che i meno attratti ancora non hanno digerito a dovere (vedi “Knights of Cydonia”). Ci sono anche degli ospiti: Bobby Gillespie, musicista scozzese famoso per il suo contributo (ancora in corso d’opera) nei Primal Scream, e Brigitte Fontaine, anziana quanto poliedrica artista francese direttamente da Morlaix, Bretagna, entrambi con un nome che inizia con la B. Ha pensato proprio a tutto. Ma nella logica di un seguito al primo disco che si intitolava A i conti tornano.
Mettendo insieme i vari elementi che compongono questa epopea, si scorge una certa propensione per la world music, un certo feeling per l’etnico che si concretizza poi in armonici che puzzano di Sol Levante e percussioni prima arabeggianti, poi più africane, con cembali, tamburi e chissà cos’altro. Sicuri che in Francia l’integrazione vale abbastanza da non temere gli affronti di Sarkozy e la sua cricca, come conferma anche un proliferare di musica come questa, valevole quanto scioperi e comizi quando si tratta di ‘dire qualcosa’. E Turzi lo dice bene, con suoni aspri, esasperati in particolar modo nella tesissima “Bethlehem”, città scioccamente distratta a subire quello che nel suo contesto geopolitico continua a succedere a causa di religioni che non possono e non vogliono coesistere, costretta ad assistere alla nascita di un Cristo che, effettivamente, ha portato solo guerre. Devozione e politica a parte, tutto quello che una persona sa delle città diventate titoli può essere visualizzato degustando con le cuffie a palla questi brani, composti con una qualità che fuor d’ogni dubbio si può definire altissima. “Baltimore” è la più electro-pop ed ha un groove superballabile, quasi da chart. Niente hit parade però, si sfila solo per le paraboliche alternative più indie-affossate. Che termini di merda.
La seconda parte del disco è altrettanto gradevole. Ancora un paio di strizzatine d’occhio ai Muse, quelli più danzerecci di “Take A Bow” in “Brasilia”, e quelli più rock in “Bangkok”, che si fregia di elicotteri sintetizzati che catapultano l’introduzione della storica “One” dei morti e sepolti Metallica in una dimensione pinkfloydiana dove Syd Barrett balla con Ringo Starr e, perchè no, coi Daft Punk. Ve lo immaginate? Relax che ancora ricorda i Battles più sognanti in “Bogota”, una città straziata dal traffico della cocaina, immagine che non si può, stavolta, figurare più di tanto. Ma i suoi synth ricordano invece molto gli anni ’80, combinati con quei pad molto soft pop che basterebbe un attimo per trasformarla in una hit dei vecchi Eurythmics.
Un disco coloratissimo, che esplora l’elettronica in maniera multiforme, viaggiando avanti e indietro nel tempo e nello spazio, visitando luoghi che tutti noi conosciamo almeno per sentito dire con elementi della cultura musicale digitale che, anche questi, non ci sono ignoti. Album che mette in campo una produzione fantastica con grandi sforzi, senza dare nulla di nuovo, ma con un intuito e una composizione che sono al contempo pregevoli, sfarzosi ed intrepidi. E il valore superava così la scala percentuale. Gran disco.
Credit Photo: Bandcamp