Io Tim Harrington lo vidi per la prima volta otto anni fa. Si era tutti lì per la prima italiana dei Mars Volta, eppure i mattatori della serata furono lui e i suoi Les Savy Fav. Quella sera non fecero prigionieri, sia dal punto di vista strettamente musicale che da quello squisitamente scenico: chitarre spigolose sempre in bilico tra Brainiac e Fugazi / tra artistico e autistico, sezione ritmica che non lascia scampo e ti costringe a muovere le chiappe (e di conseguenza a sudare sette camicie) e poi lui, un cantante ciccione con la barba che ha il coraggio di stare su un palco a torso nudo, cerca di baciare alcuni fortunati delle prime file ed improvvisamente ti cambia la serata facendosi portare al guinzaglio dagli stessi. Tante risate, tanto sudore, però fu amore a prima vista (per i Les Savy Fav, ma in fondo anche per lui e la sua panza prominente), fu una corsa al banco del merchandising per procurarsi immediatamente tutta la discografia del gruppo. Una delle esperienze musicali più belle della mia vita, sul serio. C’era pure Enrico Silvestrin, ma non credo che abbia apprezzato quanto me.
Ed otto anni dopo i Les Savy Fav suonano esattamente uguale e Tim Harrington è sempre un vero e proprio animale da palcoscenico, ma in fondo ad artisti del genere non si può chiedere di fare qualcosa di diverso (certi artisti possono permettersi di essere conservatori, tanto alla fin fine sembrano progressisti lo stesso). Nel frattempo, una manciata di singoli e niente dischi ufficiali per cinque anni (cinque anni in cui molta gente – un nome a caso, James Murphy. Un altro, The Rapture – è passata all’incasso suonando roba che i Les Savy Fav facevano prima, e decisamente meglio), un ritorno (“Let’s Stay Friends” ) che li ha resi un gruppo di culto anche per coloro che sono soliti cavalcare miti & mode del rock n’ roll (leggasi NME, Pitchfork e relativi lettori assidui). ed ora questo “Root For Ruin”, un disco che esce nel 2010 ma è come se fossimo ancora nel 2002, un disco senza tempo e senza spazio, un disco è meno cerebrale del loro capolavoro “Go Forth” ma che è altrettanto lascivo, un ti entra dentro e scava in profondità tanto quanto basta a farti commuovere.
Scava tra i tuoi ricordi, facendoti tornare a quella sera in cui li hai visti per la prima volta e da allora attendi con impazienza che tornino in Italia ad incendiare un palco, a travestirsi da coniglio, a mostrare la panza, a farsi fustigare dal primo che passa, per amore della musica e del proprio pubblico, per amore dell’Arte e dell’Ignoranza. Torni indietro a quando non lavoravi e facevi finta di studiare (o a quando studiavi e facevi finta di lavorare), a quando era tutto più facile e non dovevi caricarti di eccessive responsabilità , tanto avevi sempre chi per te raccoglieva i cocci ed aggiustava il tutto.
Combinare casini, divertirsi e non preoccuparsi di null’altro. Ecco, “Root For Ruin” è tutto questo e molto di più: un disco che non si carica di eccessive responsabilità ma che è in grado di arrivare agevolmente al dunque, si ascolta facile e non si fa troppe menate. Un disco da qui ed ora, ma che ascoltato poi e dopo manterrà intatto il suo fascino innato e sarà sempre in grado di combinare casini senza raccogliere cocci, senza aggiustare nulla perchè tanto non c’è più nulla da aggiustare in questo povero mondo malato, ed allora ci resta solo la musica, ci restano solo l’Arte e l’Ignoranza. Ormai non c’è più salvezza, ma finchè ci saranno gruppi come i Les Savy Fav potremo anche permetterci di stare tranquilli.