Qualcuno (forse io) sosteneva che poche band britanniche hanno saputo riprodurre con una tale dovizia di particolari il momento storico in cui si sono evolute come fanno e hanno fatto i Manic Street Preachers. In pieni anni ’90 il loro exploit fatto di malcontento, timore ma anche rabbia e fiducia coincideva con l’avvento del New Labour blairiano, con la tangibile disillusione nei confronti dell’onda lunga del thacherismo che era andato esaurendosi anche e non solo per via di una crisi provocata dal basso.
Ed è proprio questa violenza dialettica la base portante di fenomeni musicali radicati nel disagio della working-class britannica di fine millennio (i Manics ma anche il britpop e certa elettronica) a cui non fa certamente difetto l’inventiva e l’intraprendenza.
Un’analisi di un album come “Postcards From A Young Man” nel 2010 non può quindi prescindere dalle dinamiche storiche che l’hanno generato. Perchè omettendo ciò parleremmo semplicemente di un buon disco rock e perchè così, no, non si rende un buon servizio alla musica.
James Dean Bradfield lo aveva annunciato: Faremo un album mainstream perchè ogni tanto ci piace che le grosse radio suonino i nostri pezzi. E infatti c’e’ pienamente riuscito. “Postcards…” piace alla gente che piace, alle zie e agli agenti immobiliari. Non esattamente il pubblico di “Generation Terrorists” e forse proprio il pubblico contro cui “The Holy Bible” lanciava pesanti invettive al ritmo di un hard-rock quasi glam, quasi pop, quasi molto altro.
Non è un album politico, non è un album di ‘heavy metal motown’ (Nicky Wire: per favore…), non è una delusione e non è un capolavoro. Allora cos è? Un gran bel disco.
Aspettarsi la coerenza da una rock band, d’altronde, è come pensare che la bontà salverà il mondo e dunque ben vengano le elucubrazioni pop di “(It’s Not War) Just The End Of Love”, l’anelito gospel della title-track e di una “Golden Platitude” prevedibile ma tremendamente efficace, fieramente costruita per piacere.
Svanita la rabbia, il violento candore, l’ingenua fierezza degli esordi, ci resta una grandissima band che ha dimenticato come scrivere inni generazionali (“A Design For Life”) ma anche solamente hit (“If You Tolerate This…”) che avessero una profondità , una pesantezza tali da sollevarli al di sopra di una mera classifica. La peggior crisi economica dal ’29 ha colpito ancora e ci regala, invece, una colonna sonora per agenti immobiliari con un cuore e una ragazza da portare fuori la sera mentre “A Billion Balconies Facing The Sun” suggerisce che è tempo di alzare il volume dell’autoradio e non farsi troppe domande, di godersi l’attimo e buttare via il resto.
Duff McKagan (un riferimento al vecchio parallelo tra i Manics e i Guns “‘n’ Roses ?), Ian McCulloch e John Cale contribuiscono poco o niente al suono di una band che sapeva da prima di scriverlo come sarebbe andato a finire quest’album. E quindi la festa può cominciare. Gli invitati sono tanti ma l’occasione merita, eccome. Si celebra la morte di una rock band e la nascita di un gran bel pop.
L’album ? Bellissimo. Davvero.