Certe band più che aspettative creano desideri: ritrovarsi tra le mani un disco di quelli capaci di scoperchiare le giornate e rivoltare come un guanto le nostre stagioni. Un altro punto debole tra le mie recenti passioni musicali sono i Kings Of Leon e non so perchè, posso semplicemente provare ad ipotizzare. Forse la voce sensuale di Caleb Followill si sposa bene con il mio sentire, oppure è la linearità della scrittura, invero non troppo fantasiosa ma efficace, ha fare breccia nel mio modo di percepire certo rock da stadio. Non lo so e non me ne frega un cazzo. E non me ne frega un cazzo nemmeno dei puristi del rock che storceranno il naso nel leggere queste parole. Certe cose hanno un senso solo quando ti piovono addosso, come la musica dei KOL ha fatto in questi ultimi anni.
Restavo ad intrecciare le ore di una sera qualunque ascoltando “Come Around Sundown”, desideroso di essere catapultato fuori dal letto, destato definitivamente da qualche schiaffo terapeutico e pugnalato da una manciata di canzoni. Uno di quei sadici e masochistici desideri di chi ascolta la musica da dentro che, a questo giro, non è stato esaudito. Il nuovo album della band del Tennessee, al di fuori di una produzione scintillante ed impeccabile, viaggia a velocità costante e raramente preme il piede sull’acceleratore per far salire di giri il motore. Gli ingredienti sono quelli del classic-rock da stadio, che lascia un po’ troppo in sottofondo l’attitudine più ruvida e southern a cui la famiglia Followill ci aveva abituato in passato.
Pochi sussulti e tanto mestiere ci lasciano tra le mani un desiderio inesaudito e un disco interlocutorio, seppur decisamente godibile. evidentemente non è l’anno ideale per le grandi speranze (Belle And Sebatian, Badly Drawn Boy sono state delle promesse mantenute a metà ), meglio riporre la fiducia nelle sorprese improvvise che questo 2010 in musica ci ha regalato.