Lunedì sera.
Un freddo cane.
Al Magnolia suonano i Wovenhand, in una Milano di concomitanze frizzanti e modaiole.
Il cielo è nero e i Wovenhand fanno musica se possibile ancora più tetra e scheletrica, un artiglio d’acciaio liquido che lacera anima e vissuti.
è la mia prima volta ad un loro live, a cui giungo vagamente dubbioso, caldeggiato a gran voce dagli amici di stretta osservanza wave rock.
Nella sala esterna del locale, che ci immaginiamo gelida e disertata dal pubblico pettinato, la realtà si presenta da subito con belle fattezze. Un’ottima gestione dei suoni, un parterre nutrito di figuri non più di primo pelo, ma conoscitori attenti della materia ed un riscaldamento ad hoc danno infatti al Circolo una configurazione quasi domestica, intima, come se l’abbraccio della nonna nelle serate Natalizie non si fosse mai allentato.
L’atmosfera c’è, dunque, manca solo l’inizio che si trascina un poco tra le chiacchiere ed un pugno di sigarette spente male, dopo un gruppo di supporto greco sfiorato a malapena ed il solito airplay accomodante.
David Eugene Edwards si presenta sul palco alle 23 in punto con pochi pochissimi fronzoli, imbraccia la chitarra (in alternanza ad un mandolino dai rimandi ossianici) come al solito seduto davanti al doppio microfono, butta un occhio ai tre compagni di battaglia e parte a razzo.
Dopodichè solo Magia.
Vuoi per il rituale sciamanico collettivo che ogni esibizione del gruppo di Denver comporta, vuoi per la profondità delle sensazioni elargite dalla dozzina circa di canzoni presentate (quasi interamente tratte dall’ultimo album “The Treshingfloor”), vuoi perchè altro non si può dire, al di fuori delle solite banalità di rito, di un set che inizia a freddo con una versione di “Heart And Soul” dei Joy Division talmente minimale e distorta da meritarsi 5 minuti di adorazione pura e pagana.
Il resto è una logica conseguenza.
Lo step successivo un silenzio ossequioso.
Con Dee perso nelle nebbie della Mistica elegiaca, una sorta di sosia in peyote di Bob Geldof scosso da mimiche nevrotiche e posseduto dai continui rimandi al Sacro e alle sue figure di riferimento, siano esse della tradizione dei nativi americani o di quella cristiana tout court.
Il tutto viene puntellato e tenuto in riga da una sorta di blues transgenico, nel senso più lato del termine.
Scandito da improvvisi crescendo chitarristici e con accenni evidenti al filone folk apocalittico (spesso la voce roca e profonda ricorda quella di Douglas P. dei Death In June), ma gestito in maniera omogenea e sagace dalla sessione ritmica, ossessiva e pulsante anche negli intervalli mantrici (fin troppo dilatati a mio avviso), e dal carisma di un frontman che davvero ha pochi pari oggigiorno sui palchi mondiali.
Il risultato sono 100 minuti tondi, bis compresi, immersi in una melassa oscura, dove non è dato avere cognizioni spazio/temporali, nè sapere se si celebra l’inizio del carnevale a New Orleans o un funerale orchestrato da Tim Burton.
Davvero!
Sono magnifici questi Wovenhand: potenti, drammatici, letali.
Credit Foto: Marcus Holland-Moritz from Gärtringen, Germany, CC BY-SA 2.0, attraverso Wikimedia Commons