Ho visto il cielo aperto e ho detto vado anch’io! – come direbbe il buon Dargen D’Amico (è sempre bello citare i maestri di vita, soprattutto in occasioni come questa) – ma io non mi sono limitato alla semplice citazione, sono andato sul serio.
E sono andato non dal punto di vista mentale ma dal punto di vista meramente fisico, nel senso che ho dovuto prendere un aereo per andare a Parigi a sentire i Les Savy Fav dal vivo in un locale minuscolo chiamato Nouveau Casino. Ne è valsa assolutamente la pena, visto che i Les Savy Fav non passano più in Italia da otto anni (e probabilmente non passeranno mai più, ma non voglio portare sfiga), poi Parigi è sempre Parigi (ma questo è un altro discorso che non sto ad approfondire in questa sede), la musica è sempre la musica ed alla fine di tutto ci tornerei di corsa perchè per concerti del genere si può fare questo ed altro.
Ma andiamo con ordine.
Un concerto che inizia alle otto di sera in Italia è una rarità , in Francia è ordinaria amministrazione. Hanno aperto i Cloud Nothings (ottima band davvero, titolare di un sound a metà strada tra le pulsioni mainstream di cose come Strokes e Babyshambles e certo emo che si ascoltava su etichette come Deep Elm e Polyvinyl sul finire degli anni novanta), poi Sky Larkin (roba già sentita e strasentita, oltretutto falcidiata da problemi tecnici che hanno ulteriormente appesantito la sopportazione di una proposta musicale non esattamente tra le le più appetibili ““ per la cronaca: stereotipi riot grrl fuori tempo massimo, primi Blonde Redhead, una maglietta di Jean Michel Jarre inopinatamente indossata dalla chitarrista-vocalist del gruppo), ed infine Les Savy Fav. Chi si aspettava qualcosa di diverso o di tranquillo è rimasto deluso: hanno attaccato le prime note di “Excess Energies” ed il loro frontman Tim Harrington era già in mezzo al pubblico, a dare e ricevere spintoni, a denudarsi, a sudare, a leccare, a leccarsi, a far partire telefonate a caso con il cellulare trafugato dalla borsetta di una incauta spettatrice. Oserei dire molto punk. La band americana è una autentica macchina da guerra che non perde un colpo – qualcosa del tipo Fugazi in anfe alle prese con il repertorio dei Six Finger Satellite, ma peccherei presunzione a volerli ingabbiare in similitudini che lasciano il tempo che trovano ““ con una originalità ed una fisicità che non ha eguali nel panorama indie odierno.
Non un attimo di tregua, non una sbavatura: poco più di un’ora per una scaletta basata essenzialmente su brani degli ultimi due dischi che li hanno fatti conoscere(?) al grande pubblico, con inaspettati recuperi come “The Sweat Descends”, “In These Woods” e “Who Rocks The Party” tanto per far capire a chi li ha scoperti solo ora quanta gavetta hanno fatto, quanti chilometri hanno percorso sul loro van prima di arrivare dove sono arrivati e di dirigersi verso l’ignoto, verso il prossimo concerto, verso la prossima follia di Tim Harrington, vero animale da palcoscenico (anzi, vero animale e basta) capace di stupirti anche otto anni dopo l’ultima volta in cui l’hai visto su un palco.
Ed uscire sapendo di aver visto una grande band al massimo della forma e nello stesso tempo avere ancora una intera notte da vivere visto che il concerto è terminato poco dopo le dieci e mezza è una sensazione indescrivibile.
Credit Foto: Photograph by Rama, Wikimedia Commons, Cc-by-sa-2.0-fr, CC BY-SA 2.0 FR, via Wikimedia Commons