Una rapida riflessione: quasi tutte le grandi donne della musica alternativa anni ’90, in un modo o nell’altro, hanno perso smalto. Tori Amos non propone un disco decente dal 2002 e s’è ridotta a cantare canzoncine di Natale, Björk continua a cadere nei soliti clichè, Fiona Apple, poveretta, non pubblica un disco da anni.
Chi si salva? Me ne vengono in mente due-tre. Polly Jean Harvey è sicuramente tra queste.
“Let England Shake” esce a due anni di distanza da “A Woman A Man Walked By”, scritto in coppia con John Parish (presente anche in quest’ultima fatica in compagnia di Mick Harvey) e a quattro da “White Chalk”, a cui è sicuramente più affine. Se però il disco del 2007 , primo della svolta riflessiva della musicista del Dorset, puntava sì ad atmosfere meditative ma di carattere più introspettivo e personale, questo nuovo lavoro mira a raccontare gli orrori della guerra e il comportamento di una nazione, la patria inglese della cantante, completamente inserita nelle dinamiche belliche degli ultimi anni. Un’ennesima svolta quindi per la camaleontica Polly Jean, che a onor dei concetti divulgati rinuncia per la prima volta a mettere il proprio, iconico volto in copertina (copertina bruttarella, aggiungerei).
In maniera molto intelligente, la Harvey evita di cadere nel clichè del disco cantautoriale per chitarra e ritmiche lente e banali; al contrario, affida le sue liriche, per le quali ha affermato di aver intrapreso un lungo studio e di essersi ispirata a Harold Pinter e a Thomas Stearns Eliot, a un’ampia varietà di registri musicali diversi. Se infatti in “Hanging In The Wire” e in “England” rivivono le atmosfere acustiche di “White Chalk”, la nuova verve politica si presenta in maniera sanguigna in “The Last Living Rose”, dove la cantante propone un inedito assolo di sax, nelle chitarre di “Bitter Branches” o nel primo, NickCave-ianissimo singolo “The Words That Maketh Murder”, tra ritmo trascinante e liriche d’effetto (“I’ve seen soldiers fall like lumps of meat / blown and shot out beyond belief / arms and legs were in the trees”). La stessa Patti Smith, una che se ne dovrebbe intendere di affari del genere, intervistata ha affermato di essere rimasta colpita da un singolo del genere e di aver continuato ad ascoltarlo ininterrottamente per un’intera mattinata.
L’ascolto prosegue verso l’ansiogena “The Glorious Land”, corredata da adunate militaresche e un cantato straziante, le reminescenze folk di “On Battleship Hill” e “In The Dark Places”, in cui sembra di sentire, lontana, la PJ di quel discone chiamato “To Bring You My Love”. Numerosi i campionamenti, dall’anthem swing “Istanbul” dei Four Lads nella titletrack alla chitarra reggae di “Blood And Fire” di Niney the Observer, e se dovesse mancare una conferma della qualità del pacchetto, la tripletta finale non può che incoraggiare la valutazione: le citate “Hanging In The Wire” e “Written On The Forehead” si susseguono in maniera impeccabile, sfociando nella malinconia di “The Colour Of The Earth”.
Ci piaceva la PJ rock, c’è piaciuta la PJ acustica e ci piace la PJ impegnata politicamente. Assicuratevi di ascoltare questo disco, difficilmente ne usciranno di così belli nel corso del 2011.
Credit Foto: Maria Mochnacz