C’è un momento in cui qualcuno, parlando di rock, ha ammesso che tutto è ormai già stato detto. Chi poteva intaccare l’aura energetica di Buddy Holly? Chi avrebbe sovrastato l’eros adrenalinico di Elvis Presley? Quanto sarebbe passato prima di accantonare un genere morto a pochi anni dal suo concepimento? Nella ragione, il torto. Il rock è morto e al suo posto un’esegesi ibrida ha proliferato fino a che i rivoli da esso propagato non sono convoluti in un unico, nobile ambito: la noia.
Un duo volgare, appesantito e sfibrato dall’ozio ha rimosso quanto di stanco e prevedibile esisteva in sotto-generi quali lo sludge e il doom e ne ha rilevato con ingenuo gusto le ripetizioni organiche; metafore ipnotiche di realtà psicotrope alla portata di menti semplici, terrene.
I The Body da Rhode Island coniano un’attitudine nuova, un post-rock nell’accezione meno musicale e più analitica nel termine. Un coro di voci femminili (lo splendido Assembly of Light Choir) che dilania una musica già di per sè aliena da dinamiche note e così fortemente, ingenuamente illogiche da sembrare stupide, quindi sincere, quindi perfette.
è uno sludge senza l’assillo del feedback, un doom libero dai tempi del genere, un minimalismo strutturale che lascia che i suoni convergano verso brani la cui costruzione priva di logica, di “A – B -A – B – C…”, banalizzi una ricerca sonora che invece prosegue a luci completamente spente.
Ogni nota è un distillato di dolore – e questo lo si legge ormai ad ogni uscita di musica estrema – ma “All The Waters…” scuote fin nel profondo poichè rifugge dalla metafora per divenire realtà ; o meglio: nel limitarsi a descriverla senza aggiungere altro, compie un passo in avanti e dunque sperimenta senza neanche volerlo o sapere di farlo.
Tutta l’acqua della terra diventa sangue quando il riff da solo basta a dare credibilità ad un album, quando una delle migliori tracce (“Empty Hearth”) si basa sull’esaltazione di una preghiera della Church Universal and Triumphant per degenerare in un drone chitarristico che ne scandisce il mantra straziandone i tempi, sconvolgendone le intenzioni, deviandone il peso musicale.
La musica, appunto, qui è un mezzo, non il fine. Non è un album da musicisti per musicisti, nè è tantomeno una testimonianza per coloro che, come chi scrive e chi legge, riesce a trovare definizioni dove queste non sono una necessità ma un danno, un vociare muto su un’opera, come “All The Waters…”, che è al tempo stesso familiare e aliena, metafisica e sporca. Brutale, scomposta, avvilente, volgare, deprimente e logora. Un’opera casuale e acritica. Sublime.