Manchester si conferma da qualche anno una città molto prolifica in quanto a band di questo tipo: definirle indie è diventata una moda abbastanza difficile da combattere, ma dopotutto se un genere s’ha da citare, è quello. Aggiungiamo, per l’occasione, l’accezione “pop” che perlomeno racchiude dentro di sè un’essenza di orecchiabilità e facilità d’ascolto che è propria di band come quella di cui si sta per parlare.
I Dutch Uncles vengono, appunto, da Manchester. Nel 2009 apparivano per una comparsata momentanea, scomparendo poco dopo. Nel 2011 ritornano in grande stile, con un disco pubblicato da Memphis Industries (che non è poco, visto che lavorano con Banjo or Freakout, The Go! Team e Cymbals Eat Guitars, per citarne alcuni da un nutritissimo roster), che prende il nome di “Cadenza”: termine che difficilmente può essere accostato alla musica dei DU ma che, a dire il vero, può descrivere in maniera decisa il groove medio dell’album giacchè le canzoni, nonostante alcuni innalzamenti di tono che puntano principalmente a ballabilità e radiofonicità , tendono ad incespicare in ritmi piuttosto rallentati e poco “salterini”. Come dire la tendenza a ritmiche quadrate. Un privilegio di quei pochi che lo sanno fare, e poi chi si lamenta? Perchè se il disco è bello è anche grazie a questo.
Le undici tracce raccolgono più o meno tutti gli elementi basilari di una band inglese di successo dell’ultimo decennio: qualche traccia melenso-pop (“Dolli”, con qualche coro beatlesiano che non guasta), le impennate più rock tipiche di band più animate (ma anche i Franz Ferdinand, volendo, però voliamo basso che è meglio), come in “Sting” e “Orvil”, che un po’ si connette con esperienze new wave/post-punk di stampo più eighties a ricordare Talking Heads, Devo, Joy Division e Gang of Four (“Dressage” e “The Ink”), in rapida successione, con una mescolanza in realtà molto subdola che si intreccia con un lavoro notevole alle chitarre nascondendone gli aspetti più evidenti e palesi. Niente scopiazzatura, ma un lavoro intenso di riscrittura di stilemi già sentiti che dona alla band una certa personalità , seppur il sound sia una specie di compendio tra Banjo or Freakout, Scouting for Girls e Everything Everything. Una nota positiva per la conclusiva “Zalo”, dove un mood vagamente dark d’anni ottanta si unisce con un cantato che ricorda MOLTO da vicino Thom Yorke, costringendoci a pensare che i Radiohead sono proprio l’influenza principale di quasi tutti i buoni musicisti d’oggi. Ma poi si ascoltano gli arrangiamenti quasi antagonisti rispetto a quelli della band dell’Oxfordshire e ci si accorge che non è vero niente.
La band sa il fatto suo e i ragazzi ci mettono poco a dimostrarlo (le migliori sono effettivamente le tracce d’apertura, “Cadenza” e “Fragrant”, almeno in quanto ad originalità ), utilizzando, come dicevamo, linguaggi già collaudati da tempo, limitando al minimo innovazione e sperimentazione, esprimendo solamente uno stato d’essere che ormai si tende a chiamare “indie”. Sarà un termine adatto? Dopotutto non sta a noi giudicare, ma Cadenza non è un brutto disco e la sua freschezza prettamente pop lo classifica in quel limbo di decine di bei dischi che la gente dimenticherà , proprio quelli che pescando casualmente da uno scaffale ci piacerà riascoltare anche tra una decina d’anni. E tra venti, come sarà ?
Photo Credit: Bandcamp