L’azienda Brunori torna sul mercato con il secondo volume della collana e una responsabilità sempre meno limitata, visto che si tratta di dare un seguito all’album che in due anni ha riscosso successi in serie, ha fatto strage di cuori e premi del calibro del Tenco 2009 per il miglior esordio. Dario Brunori ha deciso di puntare in alto e lo ha fatto nell’unico modo a lui congeniale: scavare nel profondo del Paese odierno così simile a quello di ieri, così sempre uguale a sè stesso. Ne vengono fuori i ritratti strazianti, a volte ironici, molto spesso familiari, di dieci tipi umani e delle loro sconfitte molto italiane e meravigliose.
Un lavoro questo “Vol. 2” che ascolto dopo ascolto si rivela un grandissimo disco di musica italiana, un sussidiario per suoni e parole di cinquant’anni di canzone del Belpaese, capace ben più della politica e della cosiddetta società civile di descrivere, raccontare l’Italia. Laddove l’esordio era totalmente autobiografico, megafono per racconti personali degli anni che dall’infanzia portano all’età adulta e per questo di facile presa, il secondo capitolo schiera immagini di vite piccole ma ben più travolgenti e stravolgenti, racconti che strizzano il cuore e inumidiscono gli occhi dal primo all’ultimo brano. Perchè una cosa va detta e cioè che “Vol. 1” nella sua seconda parte calava parecchio e chi come me ne ha consumato il vinile sa di cosa parlo.
Qua no, il livello è altissimo sempre, c’è un’ispirazione superiore che si sposa ad un lavoro di cesello sui suoni che sbalordisce portandomi a dire che davvero tutto è al posto giusto. Ascoltare le canzoni del “Vol. 2” significa incontrare un giovane Capossela che sorseggia Biancosarti seduto al fresco dei tavolini estivi in compagnia di De Gregori e dell’immancabile Rino Gaetano, atmosfere vellutate di vita provinciale (“Lei, lui, Firenze”, “Una domenica notte”) ma pure irruenze rock da Pan Del Diavolo e duro pane del lavoro che toglie più di quanto non dà . Tornano i treni della speranza stavolta con il Wi-Fi (seppure intermittente) e non portano a niente, solo a sogni infranti (“Rosa”). Archi e fiati di stampo classico, musica da camera (“La Mosca”) oppure corde percosse, strappate, violentate, un sassofono Morphine e titoli splendidamente moderni (“Animal colletti” in compagnia dell’altro purosangue di casa Pippola Dimartino); c’è di tutto nel calderone di Brunori persino un Dente forse di troppo tanto da far apparire “Il Suo Sorriso” il pezzo più sbiadito del lotto. In “Tre Capelli Sul Comò” torna il neo-urlatore del disco precedente, canzone dell’amore finito, di autocommiserazione con verve, di Gaetano e Celentano con tanto di coda western.
Lascio per il finale le considerazioni spudoratamente soggettive sui brani “Bruno Mio Dove Sei” e “Il Giovane Mario”, canzoni sulle quali non ho potuto fare a meno di piangere, canzoni in cui la felicità si coglie quando è troppo tardi, quando ciò che resta è una mancanza, canti della tragicità del tirare avanti perchè non c’è altro modo di fare e salutarsi “Fra Milioni Di Stelle”. Ascoltare Dario Brunori è come sfogliare vecchie foto, riascoltare i vecchi LP dei tuoi e sentire quelle parole e quelle melodie, sepolte negli anfratti della memoria, che tornano a splendere in un secondo. Regalandosi così un sorriso benevolo anche nelle situazioni più squallide e dure perchè i poveri cristi di quest’album sono intorno a noi, siamo noi.