Partiamo subito togliendoci un sassolino dalla scarpa: chi, pur vivendo ad una ragionevole distanza dalla città di Bologna, si è perso un concerto come quello dei Battles al Link ha perso una grande occasione. Ok, capisco il caldo e le vacanze, capisco il fatto che i Battles tre anni erano hype mentre ora non lo sono più e qualcuno pensa che solo per questo non valga la pena di andare a sentirli, capisco che sia più bello e gratificante a livello interiore starsene di fronte allo schermo del pc a battere ipotetici caratteri al vetriolo per demolire un disco o una band, però vedere uno spettacolo come quello a cui hanno potuto assistere i fortunati presenti all’esibizione dei Battles non è cosa da tutti i giorni.
E come è stato il concerto in questione? è stato il concerto di una band decisamente molto più in forma rispetto alle prime, memorabili, entusiasmanti, gremitissime uscite italiane. Il concerto di una band che, dopo l’abbandono di colui che – a torto – ne veniva da tutti considerato l’anima, è risorta dalle proprie ceneri ed ha dato alle stampe un disco importante come “Gloss Drop”, riuscendo pure nell’impresa di riproporlo quasi per intero dal vivo a dispetto dell’enorme complessità dell’impresa. Il concerto di gente che sta proponendo qualcosa di unico e diverso dal piatto panorama della musica odierna e lo fa con il sorriso sulle labbra, prendendosi molto poco sul serio e non facendoti pesare la propria enorme preparazione tecnica.
La rivincita di gruppi che piacevano tanto alla turbocritica musicale negli anni novanta come gli Storm & Stress? Io dico di sì. Nessuna concessione a “Mirrored” o ai due primi EP rivelatori del fenomeno Battles, solo “Gloss Drop” e i suoi suoni stratificati, le sue ritmiche vulcaniche, le sue trame sintetiche, i suoi featuring vocali. Ed è proprio qui che ti voglio: la presenza dell’assenza, ossia l’idea di aggirare l’ostacolo costituito dall’assenza dei vocalist che hanno collaborato a “Gloss Drop” proiettando la loro immagine su maxischermi posti alle spalle della band e facendo partire il loro contributo vocale in playback è roba che sembra uscita dalla testa di Enrico Ghezzi, anche (e soprattutto) in virtù del fatto che spesso e volentieri tutto era fuori sincrono ma suonava bene, dannatamente bene. E poi, un Williams in tutto e per tutto uguale al miglior Jim Carrey (quello ultrasnodabile ed acchiappa-animali di Ace Ventura) che suona pochissimo la chitarra e si occupa per la quasi totalità della durata dell’esibizione di suonare le tastiere, ballare e gestire i loop (ballare e gestire i loop: ecco il segreto per rendere in maniera così credibile un disco complicato come “Gloss Drop”, non oso immaginare quanto siano state maniacali le fasi di preparazione di questo tour…), Stanier sudatissimo eppur devastante alla batteria con piatto ad altezza mensola, Konopka che si alterna tra chitarra, basso ed altri gingilli non meglio definiti eppure riesce ad essere sempre convincente ed esteticamente impeccabile. Matias Aguayo ad un certo punto sbuca fuori in carne ed ossa a far casino, ed è surreale vederlo contemporaneamente cazzeggiare sul palco e sugli schermi, ma anche no, in considerazione del fatto che fondamentalmente ai Battles piace giocare e probabilmente è questo il vero motivo per cui riescono a rendere pop roba che in mano ad altri sarebbe noiosissima e sterile accademia (se non masturbazione mentale da complessati).
A costo di ripetermi: chi non è corso a Bologna a vederli si è perso un gruppo vero fatto da gente che ci crede ed ama la musica che suona. Poi, per carità , i gusti son gusti. Poi, per carità , ci son sempre gruppi tipo The Pains Of Being Pure At Heart che son buoni per tutte le stagioni, dove li metti stanno e non sporcano. Poi. Per carità .