Ne è passato del tempo dal 1981, quando gli Anvil erano un quartetto. Oggi il trio power metal ha alle spalle quattordici album di puro metal intriso di testi ironici (fino a raggiungere il sessimo) e qualche parentesi più seria. Veterani del circuito metal underground, con trent’anni di onorata carriera e piccole soddisfazioni (raggiunte anche grazie alla realizzazione del film Story of Anvil) gli Anvil ritornano per la SPV/Steamhammer con l’album “Juggernaut of Justice”.
A quattro anni di distanza da “This is Thirteen” la band si rinchiude nello studio 606 di Dave Grohl per regalare ai fan una buona dose di martellamento metal. Martellamento appare il termine più adeguato, sia per la batteria di Reiner in sottofondo che per il ritmico distorto della chitarra, la quale spesso e volentieri si lancia in assoli, rispolverando espedienti musicali dei grandi successi degli anni Ottanta. Se canzoni come “When Hell Breaks Loose”, “Not Afraid” e “This Ride” (cantata dal bassista Glenn Five) sono sorrette dai riff di Lips (e accenni trash metal), “Paranormal” strizza l’occhio ai Black Sabbath in una marcia doom dal ritmo cadenzato.
Il finale di “Swing Thing” regala infine una divertente parentesi di matrice jazz, che nonostante sia stato etichettato da Lips come sua invenzione, si rifà palesemente ad esperimenti del prog metal e non solo (i Sabbath di “Breakout” ne sono la prova). Infine è doveroso riconoscere nella produzione un grosso punto a favore, in quanto in grado di riprodurre fedelmente i suoni distintivi degli strumenti e della voce.
Nonostante si tratti di un album onesto, in puro stile Anvil, queste 14 tracce sembrano rivolte maggiormente allo zoccolo duro dei fan, che senza pretese accettano di rimanere saldi sul sound che ha reso la band tanto amato dal pubblico underground. Una scelta cauta, ma spesso un pizzico di pericolo è necessario per poter uscire dalla venerazione di nicchia.