Viviamo in un epoca in cui scrivere di musica in senso stretto non conta praticamente più nulla perchè di fatto i dischi escono che sono già vecchi, sentiti e strasentiti. E non solo perchè cominciano a circolare in rete due mesi prima della loro reale uscita sul mercato: nel mondo della musica ormai tutto è già stato detto e fatto e non si inventa più nulla di nuovo, e se lo si inventa la cosa che ne vien fuori è talmente inascoltabile da rappresentare pura masturbazione mentale. In virtù di tutto questo, chi ha ancora voglia di leggere di un disco, delle sue caratteristiche tecniche e delle sue presunte peculiarità così come ce lo raccontano le pedantissime ed accademiche recensioni alla Assante, Bertoncelli, Red Ronnie (mettiamoci anche lui anche se non è un recensore tout-court, dai. Facciamolo contento visto che ora che Letizia Moratti è stata sconfitta a Milano ha perso il lavoro) et compagnia bella? Troppo noioso, e poi nel 2011 non ha più senso. Va contro ogni logica, va contro la velocità con cui circolano le informazioni in rete. Che voglia potrei avere di leggere (faccio un esempio a caso) Red Ronnie che mi racconta che i Franz Ferdinand hanno gli stessi schemi di batteria dei Talking Heads, quando lo so già , li ho già sentiti prima che il disco nuovo uscisse, ho letto cose più dinamiche in rete ma soprattutto mi sono già stancato di loro perchè ho scoperto altro e comunque li ho scoperti ben prima di lui (ma non me ne faccio un vanto dato che lui ha vissuto i Talking Heads in presa diretta)? Meglio approfondire altri aspetti, meglio ricordarsi che chi scrive è anche (e soprattutto) un ascoltatore, meglio parlare delle emozioni che un disco è in grado di suscitare nell’ascoltatore, meglio dire che cosa l’opera è in grado di comunicare anche se questo qualcosa all’apparenza non c’entra nulla con l’oggetto del discorso (che è pur sempre un disco e serve a rendere più felice il nostro tempo libero, anche se spesso e volentieri purtroppo si tende a dimenticarlo). Meglio non fermarsi davanti alla tecnica o all’accademia. L’importante è il messaggio, non il mezzo.
Tutto questo (e molto altro ancora) Nick Kent l’aveva già capito trent’anni fa anche se all’epoca non esistevano ancora la rete, gli mp3, le webzine, i blog e i forum musicali ma i dischi erano reali, gli artisti erano reali (e spesso e volentieri morivano per la loro arte), si inventava ancora qualcosa e c’era tanto da dire. In un certo senso è stato un precursore: quasi una sorta Lester Bangs inglese, partito dal nulla ed arrivato all’olimpo di NME, entrato nella storia di questa rivista musicale inglese, caduto nella polvere e risorto, ha codificato un nuovo modo di scrivere di musica ed ancora oggi è considerato una specie di maestro per essere stato colui che ha superato definitivamente ed ha reso mainstream un certo modo di parlare di musica molto distante dalla classica recensione fitta di dettagli tecnici & altri barocchismi che caratterizzavano la prosa di chi al tempo scriveva di musica (salvo eccezioni, ovviamente) e che caratterizza ancora la prosa di quei riccardoni[*] che sono rimasti mentalmente fermi al 1969. In pratica, il rock era qualcosa di pericoloso a livello sociale ma molto affascinante e Nick Kent agiva di conseguenza, deliziando il palato dei propri lettori con pezzi che parlavano al loro cuore.
Questo “Apathy For The Devil” è la sua autobiografia e, come dice il sottotitolo “Memorie dagli anni settanta”, tratta di quel decennio aureo che va dal 1970 al 1980. L’opera in questione altro non è che una collezione di esperienze di vita, scene di vita vissuta, imprese eccezionali, gioie, dolori, pensieri, parole, opere ed omissioni; il tutto è raccontato con la foga ed urgenza tipica di questo grande critico musicale che prima di essere un giornalista musicale è soprattutto un appassionato di musica che vive la sua passione con grande intensità ed ancora oggi ne fa una ragione di vita. L’infanzia vissuta in Galles, il primo concerto dei Rolling Stones da ragazzino, l’esperienza come chitarrista nel primo embrione di formazione dei Sex Pistols, l’amicizia con Iggy Pop, i tour a seguito dei Led Zeppelin, la prima striscia di eroina con i Can, le metamorfosi di David Bowie, le prime avvisaglie di ciò che musicalmente parlando sarebbero stati gli anni ottanta, tante altre cose che non vale la pena di stare ad elencare perchè è molto più bello scoprirle leggendole: roba forte, insomma. Roba che ti aiuta a saperne di più e magari a capire perchè vale ancora la pena di provare a divertirsi scrivendo della musica che si ascolta e si ama.
[*]riccardoni: grandi esperti in materia definiscono come riccardone (a volte scritto anche Riccardone, con la R maiuscola per rafforzare il tutto) il tipico audiofilo che pensa che il massimo della libidine siano il pomp rock, il prog degli Yes o magari gli assoli di Mark Kopfler da mettere a palla sull’impianto stereo Marantz per farli sentire agli amici e far notare loro la grande pulizia del suono. Spesso e volentieri il riccardone trascura l’igiene personale, ha la forfora stile ghiacciai dell’Himalaya, una pettinatura abominevole ed indossa pantaloni con le pinces. E spesso e volentieri ha pure grossi problemi di inserimento sociale, ma questo è un altro discorso che esula dall’aspetto musicale della faccenda.
Apathy For The Devil Rating: Autore: Nick Kent |