C’erano una volta i Red Hot Chili Peppers. C’era una volta una band dove ogni membro era più o meno insostituibile. Impossibile pensarli senza le ‘sleppate’ di Flea o privi dell’inconfondibile stile chitarristico di Frusciante. Difficile immaginarsi l’assenza delle ritmiche di Chad Smith, della voce e del carisma di Anthony Kiedis. Da circa un paio di lustri, lo scenario, però, si è un po’ rarefatto: Flea sleppa per inerzia e anche Chad non picchia più come una volta. Frusciante si è definitivamente rotto le palle ed è (ri)uscito dal gruppo, dedicandosi ad eccelsi lavori solistici. Kiedis, invece, tralascia le corde vocali e sembra avere molta più cura degli addominali o delle sue improbabili acconciature.
Un disco come “By The Way” aveva già messo in chiaro che i Red Hot non avrebbero più replicato un “Blood Sugar Sex Magic” o un “Mother’s Milk”. “Stadium Arcadium” non fece che riconfermare il cattivo andazzo, entrando nell’olimpo dei dischi peggio riusciti di sempre: un doppio pieno di pezzi inutili, probabilmente scarti degli scarti. Senza contare una copertina che pareva la versione brutta del logo di “Mai Dire Gol”.
Le premesse per il recentissimo “I’m With You” non potevano che essere ai minimi storici: due dischi pressochè orrendi alle spalle e l’ennesima fuga di Frusciante, qui sostituito dal suo più giovane amico Josh Klinghoffer. Partendo proprio da lui, va detto che il nuovo acquisto non se la cava poi così male, e anche il disco, con tutti i difetti del caso, non è poi tutto questo obbrobrio come si potrebbe pensare. Siamo davanti al solito funky – pop di pura matrice Peppers, cosa che viene subito messa in chiaro dal discreto esordio di “Monarchy Of Roses”. Alle masse è invece giunta “The Adventures Of Rain Dance Maggie”, primo singolo innocuo e banalotto, capace di terrorizzare l’ascoltatore sulle sorti del nuovo disco e di fornire un’idea distorta di quest’ultimo. Già , perchè all’interno di “I’m With You” girano pezzi di basso calibro come “Ethiopia” e altri più scontati (“Look Around””…) , ma anche l’intensa ballata “Brendan’s Death Song”, dedicata al compianto Brendan Mullen, brano davvero sentito, che risolleva le sorti del disco. Fa lo stesso il trittico di canzoni finali, non eccelse, ma comunque di discreta maniera.
Tutto sommato, ci si aspettava davvero di peggio. Un disco onesto, con qualche basso, pochi alti e molti medi; forse una piccola scrematura alla scaletta avrebbe giovato, eliminando qualche lungaggine di troppo. Si cerca di accontentarsi, anche se con tutta la caterva di uscite giornaliere che ci sono, la permanenza di questo disco nel lettore rischia di essere breve, poichè si tratta fondamentalmente di un lavoro per soli fan. è ovvio, poi, che i californiani non sono e non saranno mai più quelli di un tempo. Ora come ora, più che una macchina da rock, sono una macchina da vil denaro. E ad una macchina da soldi non è che si possa chiedere troppo di più.
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2. Factory of Faith
3. Brendan’s Death Song
4. Ethiopia
5. Annie Wants a Baby
6. Look Around
7. The Adventures of Rain Dance Maggie
8. Did I Let You Know
9. Goodbye Hooray
10. Happiness Loves Company
11. Police Station
12. Even You Brutus?
13. Meet Me at the Corner
14. Dance, Dance, Dance