Risulta semplice accostarsi a questo album, il lavoro da sophomore della band del New Jersey, perchè è in sè semplice, leggero e vagamente naif. Non è una cattiva cosa che sto dicendo riguardo ai Big Troubles, anzi trovo che questo porsi delicatamente sulla scena indie della East Coast sia esattamente in controtendenza rispetto a quanto stavo ascoltando ultimamente: qui non c’è urgenza di sfogarsi, di lagnarsi del mondo che rotola, non c’è la saccenza dell’esperto di sostanze reduce da anni sulla cresta dell’onda, non c’è il disagio giovanile, il disagio delle periferie e nemmeno il disagio della provincia che fanno tanto figo oggi. Qui non c’è del disagio o ribellione, c’è un gruppo (mediamente) bravo che suona e sembra farlo divertendosi.
Sono genuinamente normali, di quelli che potresti ritrovare in una puntata di “Dawson’s Creek”, o di “O.C.” o di cosa stanno trasmettono di questi tempi, potrebbero essere la band sana ed affidabile che fa da punto di riferimento nei momenti buoni che la teenager ascolta nella propria stanza sognando d’essere invitata al ballo (The city’s breeze always feels so quiet/
Show me where it hurts/As we watch the world burn) e quella confortante dei momenti cattivi, che la teenager ascolta nella propria stanza stramaledendo di non essere invitata al ballo (Love is in the air/but I don’t care/’Cause I don’t want to love anymore), ma allo stesso modo il gruppetto che il fratello grande in fondo in fondo non disprezza, non lo dice, ma che ascolta in macchina. Sono come i Silversun Pickups, meno rock, o come i Dashboard Confessional, più maturi, tanto per collocarli in un ideale mondo di accostamenti e corrispondenze.
Tuttavia rispetto al loro primo album “Worry”, hanno fatto un grossissimo salto in avanti rispetto al rock-pop adolescenziale, e questo grazie soprattutto al fatto che la Slumberland Record ha affiancato loro Mitch Easter (R.E.M. ““ Pavement“…), mica uno qualsiasi, che li ha sgrezzati, indirizzati, composti e pettinati per poi lanciarli con quel qualcosa in più che li rende certamente più completi. Le melodie sono chiuse, armonizzate, gli strumenti non corrono più da soli ma con un senso s’incastrano, creando ritornelli semplici ma accattivanti. C’è del Dinosaur Jr buttato qua e là (“Time Bomb”), ma ci sono soprattutto passaggi chitarrosi che strizzano l’occhio anche ad un brit pop senza tempo (“She Smiles for Pictures”), scanzonato e amichevole.
Non sarà una pietra miliare della storia della musica, questo mai, ma chi ha il coraggio onestamente di bocciare questa commedia romantica?
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