Quando il 24 Maggio 2011 è passato a miglior vita Gil Scott-Heron, pochi si sono resi conto della grande perdita che la scena culturale stava subendo. In tempi di Occupy Wall Street, London, San Francisco and Occupy-all-you-want, in tempi di Indignados, in tempi nei quali sembra che lontanamente la coscienza popolare globale stia dando timidi segnali di risveglio, una delle voci più coraggiose, sfacciate orgogliose se n’è andata.
Considerato da molti il Bob Dylan nero, rispetto al buon Zimmerman di Duluth non ha avuto la stesso eco che avrebbe dovuto avere. Perchè lui era scomodo, lui era un problema, perchè lui sottolineava, sottolineava, indicava ed evidenziava sino a mortificare ciò che non andava, ciò che discriminava, ciò che non era equo, e per questo non è mai stato coccolato dal mainstream, dai benpensanti in giacchetta.
Nato a Chicago nel ’49, da una famiglia divisa, rimbalzato tra il Tennessee tra nonne, gospel, un pianoforte a muro, approdato a New York, nel Bronx, diplomato e studente universitario in letteratura inglese alla prestigiosa Lincoln University in Pennsylvania, Gil diventa presto una delle voci nere più autorevoli e importanti di sempre.
Dopo Martin Luther King, accanto Malcolm X, negli anni delle Black Panthers, i suoi versi hanno combattuto senza sosta contro la discriminazione razziale, negli Stati Uniti come riguardo all’Apartheid, hanno schifato denudandolo dalle futili argomentazioni l’intervento in Vietnam, sono stati tra i primi in assoluto a lamentare del potere della disinformazione che può manipolare e manovrare le masse. Non si è mai preoccupato di chi avesse di fronte, di chi fosse il nemico o la questione contro cui riversare il suo spoken word, foss’esso fin il presidente degli Stati Uniti d’America, fosse fin Ronald Reagan in persona.
La sua arma era la poesia, il suo recitare su una manciata di note, su basi fatte di tastiere, di giri di basso, qualche percussione, delle congas, al massimo un flauto, un sax o un’armonica qua e là che s’alternano con il lamento di una tromba fumosa. Era il proto-rap. Era quest’esigenza innata di espressione, covata, lasciata fermentare che alla fine esplode, erutta e investe con forza tutto ciò che incontra. Era la conoscenza della povertà del degrado, dei veri problemi del popolo basso che non aveva voce, era la conoscenza della verità , di una verità che ahimè non aveva accesso al pubblico. E Scott-Heron se n’è fatto carico e l’ha cantata, l’ha recitata, l’ha presa per mano e l’ha portata su palcoscenici che andavano oltre al ghetto. Probabilmente senza di lui non avremmo avuto la scena rap e hip-hop che conosciamo, che lui si permetteva, giustamente da padre biologico, di criticare, che lui voleva strutturata e ragionata, non rozza e di strada, senza donne scosciate che scuotono i culi, senza diamanti o dollari bruciati, senza coppe di Cristal, coca e metanfetamine. La musica e soprattutto le parole dovevano essere il tramite per il riscatto sociale, dovevano essere metodo di denuncia, dovevano avere uno scopo, un nobile scopo.
Il giorno della sua scomparsa era uscito solo qualche sparuto articolo, qualche citazione e notizia telegrafica. I più fighi avevano rimbalzato la notizia sui Social Network, avevano scritto un “RIP Gill Scott-Heron” su Facebook, ma un trend #Gil però non era mai partito, forse perchè era stato un po’ dimenticato, forse perchè abituati al mondo che conosciamo non ci interessiamo a chi ha combattuto e lottato per anni per noi. Ci voleva Tony Face Bacciocchi che con un atteggiamento di estrema onestà intellettuale (Tony è il prime mover del mud italiano e GIl non è un Ray Davies) gli tributa il giusto omaggio, con un libro che più una biografia è un piccolo compendio per re-imparare a conoscere Scott-Heron.
Oltre al racconto, ragionato e ricco di dettagli e sfumature della vita del nostro Gil, Tony Face ci regala una lunga appendice in cui passa in rassegna, recensendo con la competenza di chi mangia musica da sempre, tutti gli album prodotti, creando una discografia essenziale che può essere considerata una Lonely Planet per chi vuole esplorare il mondo musicale di Scott-Heron, da “Small Talk At 125th And Lenox” con “The Revolution Will not Be televised” del 1970, sino all’ultimo “I’m New Here” del 2010 passando per “It’s Your World” del 1976 con il pezzo “The Bottle.”
Un libro necessario per chi vuole capire e parlare di musica. E non solo.
E che Dio faccia nascere presto un altro Gil Scott-Heron, perchè purtroppo di lotte per l’uguaglianza ne dobbiamo fare ancora molte.
GIL SCOTT HERON – The bluesologist Storia e discografia del padre del rap
Voto: 7,5
Autore: Antonio “Tony Face” Bacciocchi
Pagine: 96
Collana: “I LIBERINI” I tascabili Vololibero