Ho sognato Edda a Sanremo che canta la sua “Anna” accompagnato dall’orchestra Rai. I fiati, gli archi; subissato dai fischi del pubblico dal primo (“l’amore diventa merda dopo due settimane”) all’ultimo verso (” voglio solo dimenticare di quello che era giusto”), la voce che rantola e stride come un chiodo che penetra le ossa, lo sconcerto, l’ultimo posto, le polemiche e così via. Proprio come Vasco Rossi trent’anni fa ma l’esatto opposto. “Odio i vivi” è come una passeggiata nella melma di una città bombardata, un’operazione senza anestesia, canzoni che si fanno ferite tanto profonde da far uscire le ossa, sezionare i muscoli e lacerare i tendini.
Stefano Rampoldi era la voce degli Ritmo Tribale, band di culto dei primi anni ’90, tossicodipendente dall’età di 16, la risalita tra le braccia di Krishna e la ricaduta nelle grinfie della sposa e vita. Dieci anni di silenzio totale e poi nel 2009 il ritorno come Edda, un disco scarno e privo di appigli come un palindromo, “Semper Biot” era come una tonnellata di mattoni in testa all’ascoltatore. Perchè non ci si abitua mai ad ascoltare le parole di chi è morto e risorto e sarebbe stato facile credere che si trattasse di un singolo colpo battuto prima di dileguarsi di nuovo. Invece poco più di due anni dopo ecco “Odio i vivi”: il “disco sulla figa” di Edda come lo stesso autore lo ha definito, un lavoro con un abito sonoro ben più elaborato del precedente (le orchestrazioni ricorrono in molti brani) ed elettrico ma non meno “urgente” nelle liriche, sarebbe forse il caso di dire definitivo se il cuore non ne chiedesse ancora. Sono proprio le parole che sono state scelte a togliere il fiato perchè tanto sincere da mettere in imbarazzo, parole che solo un testamento, solo chi ha già perso tutto, solo chi ha leccato i marciapiedi della vita.
Questo disco è uno schiaffo alle pose da maledetti, alle pettinature alla moda, ai vestiti in voga, alla musica anemica di questi anni che dopo i quaranta minuti di “Odio i vivi” viene spazzata nè più nè meno che come dopo uno tsunami; questo è il punk, oggi. Non c’è domani se non quello fatto di sudore e cemento perchè Stefano Rampoldi di mestiere fa il muratore e ha creato un disco che rimarrà a lungo grazie ai fidi Walter Somà e Taketo Gohara). Edda dovrebbe essere ascoltato una volta al giorno per i prossimi dieci anni, soprattutto da coloro che vogliono fare i musicisti e se ne stanno chiusi nelle camerette, non hanno voglia di sporcarsi con la vita e sono già morti,non hanno nulla da dire e lo fanno anche male. Se non altro per convincersi a desistere. Un lavoro denso ma senza nessun rimando ad altro, nomi propri, qui e ora, uno sguardo che penetra l’uomo e ne scava le viscere. Difficilmente mi è capitato di imbattermi in un autore che sapesse mettersi a nudo così, svelando allo stesso modo i meccanismi della condanna di vivere.