Fa un po’ specie leggere in qualche recensione che i Maccabees avrebbero ripiegato, in questo nuovo “Given to the Wild”, in una formula sonora smaccatamente commerciale e magari tragicomicamente epicheggiante. Invece a noi pare che questi paladini della nuova wave chitarristica (in questo caso venata di colori accecanti piuttosto che avvolto in una scure coltre metropolitana) si siano estraniati dal mondo e abbiano schivato le mode del momento con grande abilità e soprattutto con una rara eleganza, segno di una ormai raggiunta maturità stilistica.
Anzi forse il disco è quasi fin troppo ricercato e ricco di preziosi intarsi, e necessità di più di qualche ascolto per essere assimilato e compreso.
La pur evidente crescita dopo il gustoso “Colour It In” avvenuta col bellissimo “Wall Of Arms” non lasciava presagire un’opera a suo modo raffinata come quella in questione.
Il “link” tra i vecchi e i nuovi Maccabees si può probabilmente individuare nelle febbricitanti “Pelican” e “Went Away” (saporitissimi gli incastri strumentali, bella tonda la produzione, solida e creativa come sempre la sezione ritmica), tutta palpitazioni tra sudore e velluto e coloratissime accelerazioni. Il resto però è un po’ diverso: “Feel To Follow” mostra in maniera più evidente sinuosità cristalline sottolineate da scie spazialose, dolcemente pavide gocce di piano e turbini chitarristici dal piglio malinconicamente fatalista, piglio che ritroviamo anche dalla successiva “Ayla”, ossia tremante poesia su sogni di purezza e visioni di morbida sensualità avviluppate in una soffice spirale pianistica, che cela in seno inattese impennate di luce imbizzarrita e fiati che si rivolgeranno al cielo. Come in un ideale ponte che unisce gli Xtc e i Talk Talk ai Wild Beasts, passando per i classici moderni Arcade Fire, i Maccabei da Brighton riescono ad accostare soavità indie-snob a momenti di puro spasso ritmico, impreziosendo le proprie composizioni con tappeti atmosferici che donano una inedita quadrimensionalità ad un sound che già in “Wall of Arms” sembrava voler ricercare un senso della spazialità totalmente sconosciuto ai wavers moderni. Da una parte sembra di rinvenire, in alcuni momenti, un afflato da arena rock, dall’altra si avvertono incantesimi sonori e alchimie che quasi quasi, a pensarci bene, rimandano a certo vecchio prog-rock riveduto alla luce dell’Oggi. Nascono così piccole gemme come l’angelica fuori e indomita dentro “Heave” (che batteria, ragazzi”…) e la galoppante “Unknow” (quanti sanno inserire una coda così maestosa nei propri pezzi?).
Consapevole ma anche in fondo noncurante del fatto che saranno snobbati dalla maggior parte degli alt-rockers, rimango in febbrile attesa dei nuovi sviluppi di questa interessatissima compagine.