Il bello di Jack White sta nella sua scelta di fare/scrivere/produrre quello che gli piace e lo appassiona, pertanto non stupisce che “Blunderbuss” sia letteralmente costellato di richiami alle metamorfosi di Jack: dai White Stripes ai Dead Wheater (“Sixteen Saltines”) per poi arrivare al cabaret della ex-moglie Karen Elson (“Blunderbuss”), questo poliedrico artista centellina generi ed esperienze passate in una chiave spiccatamente originale, quasi ricreando uno Stargate che brano dopo brano ci trasporta in una atmosfera (e decade) diversa.

Abbiamo il blues romantico del Mississippi a due voci (“Love Interruption”), l’incontro piano-violino che ritorna in una atmosfera lounge nu-jazz (“Blunderbuss”, “Hip (Eponymous) Poor Boy”) e uno swing cupo, palustre (“Hypocritical Kiss”) che contrasta con l’atmosfera da lounge bar newyorkese di un pianoforte esigente (“Weep Themselves To Sleep”). Una personale macchina del tempo che scorrazza tra doo-woop, waltz e boogie (” I Guess I Should Go To Sleep”), Chicago blues (“Trash Tongue Talker”) e il mancato inno da predicatore gospel della chicca “I’m Shaking”. Chi ascolta i grandi classici come Etta James, Buddy Holly e Joe Cocker non potrà  che sentire sotto la pelle quella atmosfera che oscilla sempre tra il malinconico e l’euforico. Non mancano poi gli esperimenti più e meno riusciti, come il riverbero di chitarra dello pseudo-surf più sentito del periodo (“On and on and On”), il blues elettrico molto anni zero di “Missing Pieces” (vedi Black Keys e soci) o la meravigliosa prova trip-hop di “Freedom at 21”. Nel bene e nel male che di lui si apprezzi la vena creativa o l’attaccamento alla tradizione (sempre rigorosamente storpiata e infettata), Jack White resta un vero e proprio artista, di quelli di cui abbiamo bisogno in questo momento. Da amare e da odiare, ma soprattutto da ascoltare.