Qualche tempo fa mi trovavo con un amico alla Berlinerische Gallerie, un museo di Berlino con ottime mostre di fotografia e con una divertente collezione permanente. Infatti, nonostante fossero presenti opere di tutte le principali correnti di pittura, dei nomi grandi e famosi non vi era traccia e i dipinti erano opera di soli artisti minori. Era buffissimo trovarsi di fronte a dipinti che sembravano di Boccioni, sembravano di Picasso, ma non lo erano. Per una volta, più che concentrarmi sull’opera singola, mi ero fermata a pensare al contesto e all’epoca, al significato e al cambiamento a cui queste correnti avevano portato.
Un po’ lo stesso mi è successo all’Immergut Festival. Nessun gruppo enorme, nessun nome particolarmente chiacchierato (o hype, per usare il nostro slang) ma tanti gruppi medio-piccoli, per cui spesso ho pensato “questi sono semplicemente la copia minore di qualcosa che adoro”.
Ma qui di estremamente buono c’era una gradevole varietà tra le proposte e soprattutto un occhio di riguardo alla scena locale. I primi gruppi a comparire in programma erano stati, infatti, due recenti uscite della Morr Music, storica etichetta berlinese, e le danze della prima notte sono state affidate ad Alle Farben, dj originario di Kreuzberg, quartiere di Berlino, sempre più apprezzato e seguito nella capitale tedesca.
Ma il festival non si svolgeva a Berlino, bensì un centinaio di chilometri più a nord, a Neutrelitz, una città in una regione che porta lo strano nome di Meclemburgo-Pomerania Anteriore che ogni anno d’estate viene presa d’assalto per il più conosciuto (almeno a Berlino), più grande e a mio avviso assai più estremo Fusion Festival.
L’Immergut Festival invece è piccolino e grazioso, e lo è già dal nome, che in tedesco vuol dire “sempre bene” o “sempre buono”. Si svolge ogni anno da 13 anni, verso la fine di maggio, in un posto che è perfetto per un weekend di inizio estate: intorno al luogo di festival si trovano una manciata di laghi, raggiungibili con il bus navetta, e il campeggio e l’area del festival si trovano in prati in mezzo agli alberi.
Per raggiungerlo io ho usato i treni. In Germania sono piuttosto cari ma ci sono varie offerte come i Länder-Tickets: biglietti del treno validi in un intero Land (regione tedesca) che permettono di far viaggiare fino a 5 persone. Venendo da Berlino si può usare il biglietto del Berlino-Brandeburgo che costa 28 euro anche se Neutrelitz si trova in realtà in un altro Land. Siete da soli? Siete in due? Siete insomma meno di cinque? Nessun problema: appostatevi in stazione un quarto d’ora prima del treno e cercate compagni di viaggio. Funziona sempre e non dovreste spendere più di 6 euro a naso.
Il biglietto invece prima lo compri e meno ti costa. Si partiva con 42 euro fino a gennaio, per poi passare a 47, 52 e 55 euro fino all’inizio del Festival. L’unico costo che viene aggiunto non è quello della prevendita, ma 5 euro di Mà¼llpfand, ovvero una piccola tassa sulla spazzatura che viene restituita in cambio di un sacchetto pieno delle vostre schifezze. Bellissimo, no? L’ultimo giorno assisteremo anche a scene surreali di gente che si ruba l’immondizia per riempire il sacchetto, perchè non basta restituirlo: bisogna restituirlo pieno!
L’Immergut quest’anno comincia con una piccola anticipazione il giovedì sera, al chiuso in un teatro a Neutrstelitz, dove hanno luogo concerti più “intellettuali”, come Hauschka, pianista sperimentale il cui ultimo album è uscito in collaborazione con il batterista dei Màºm, il post rock totalizzante degli Immanu El e il duo di Amburgo Hundreds. Ma questa piccola anticipazione purtroppo ce la perdiamo.
Il festival per noi comincia venerdì. La mini-guida del festival, molto completa e in pieno stile DIY, ci da indicazioni per raggiungere il luogo “là dove vedi una fila di gente con lo zaino e le casse di birra, lì parte il bus navetta”. Anche noi abbiamo la nostra cassa di birra, i nostri zaini e la nostra tenda. Ci appostiamo di fianco al furgone di un tizio che viene da Hannover, montiamo quella che per due notti sarà la nostra casetta e ci avviamo verso i palchi.
I palchi sono tre: il più piccolo Birkenhein (il “boschetto di betulle”, poichè si trova circondato da un bosco di betulle, appunto), lo Zeltbà¼hne (il “palco tenda”, ovvero l’unico palco coperto, abbastanza grande ma molto caldo) e quello principale, che porta l’altisonante nome di Waldbà¼hne, ovvero “il palco della foresta”, ed effettivamente tutt’intorno ci sono alberi magnifici.
Il primo concerto per noi sono Die Hochste Eisenbahn e ovviamente sono tedeschi. E cantano in tedesco. E a me questa lingua suona ancora stranissima, quando appoggiata ad una qualche melodia. Insomma, adoro parlarla, adoro ascoltarla. Ma quando si tratta di sentirla cantata ho dei grossi problemi. Il concerto comunque non dura tantissimo, anzi: alle 19.00 spaccate, come da programma, si sente già la prima canzone provenire dall’altro palco. E loro ci provano a fare un ultimo pezzo, ma non funziona. I suoni che vengono dal Waldbuhne sono molto più forti e coprono tutto. La controparte di questa specie di guerra tra band si chiama Francis International Airport e sono cinque ragazzi di Vienna. Iniziano con dei tastieroni che mi ricordano tanto i Neu! e che mi fanno ben sperare ma in realtà mi deludono quasi subito. La maggior parte dei pezzi sembra essere fatta per creare belle atmosfere ma in realtà sono solo brani molto noiosi. Verso la fine, improvvisamente, ci infilano dentro un paio di pezzi ballabili e riescono a strapparmi qualche sorriso e qualche sculettamento, ma niente più.
Il mio compare vuole tornare subito in tenda a prendere una felpa e a bere una birra. E io sono già sulla strada verso il campeggio quando mi viene in mente che ““ No! Il concerto dopo proprio non potevo perdermelo!
Trattasi di Einar Stray, un ventunenne norvegese che avevo già visto in concerto per caso durante la Berlin Music Week. Quella sera ero particolarmente di buon umore e il concerto mi piacque tantissimo. Nei miei appunti mentali avevo associato il suo nome a Get Well Soon, Sigur Rós, Màºm e Efterklang. Nomi di tutto rispetto, me ne rendo conto. E infatti non vedevo l’ora di avere una seconda impressione. Einar Stray sul palco non è da solo (perchè per quanto uno sia bravo, difficilmente da solo potrebbe ricordarmi uno dei gruppi precedentemente citati) ma è seguito da un nutrito gruppo di musicisti, tra cui abbondano gli archi.
L’impressione infatti non è quella di un progetto solista, dato che le composizioni molto ampie e quasi orchestrali. Ero preoccupata. Temevo una delusione di quelle che ti fanno dire Ma cosa avevo ascoltato l’altra volta?. Invece alla lista di band che mi ricordano si aggiungono anche gli Arcade Fire e Andrew Bird. I brani sono bellissimi e le atmosfere, che poi saranno le stesse di buona parte delle band del festival, nordiche e fredde, ma non nel senso di poco espressive, più nel senso di luci tenui, colori chiari e luminosi e spazi aperti.
A concerto finito torno velocemente sotto il palco principale perchè c’è un altro concerto che non vorrei perdermi. Gli Hidden Cameras, ovvero uno di quei gruppi di cui avevo letto il nome per anni sui blog del mio cuore e sul programma dei festival più indiepop del mondo. Quando il loro concerto inizia per i primi due pezzi penso di essere davanti al gruppo sbagliato, tanto sono cupe le atmosfere con il quale decidono di cominciare. Il resto è, fortunatamente, come me l’aspettavo, ovvero molto più gioioso (anche se già i synth e tutti questi suoni anni ottanta cominciano ad annoiarmi e ripenso a quel museo di Berlino con i suoi artisti minori e penso che questa specie di revival rimarrà caratteristico di certi gruppi di oggi come il cubismo di Picasso).
Me ne torno in tenda per un po’: devo nutrirmi e rilassarmi perchè la serata sarà ancora lunga.
Quando torno sotto il palco principale stanno già suonando gli Whomadewho.
E il mio cervello continua ad elaborare concetti artistico-sociologici. La presenza di nomi modesti non è necessariamente malvagia, anzi. C’è molto più gusto a scoprire cose belle dentro questi festival che in quelli chiacchierati e conosciuti da tutti. Ma c’è anche molta banalità , a volte. Banalità nelle idee, in gruppi che sembrano riciclare tutto il già sentito dei decenni passati condito con le uscite più chiacchierate degli anni scorsi.
Gli Whomadewho vengono allocati nella mia personale corrente degli echi anni ottanta (mi hanno fatto pensare ai Talking Heads, quindi cose un tantino raffinate), accostandoli all’altra mia personale corrente “tanto basso danzereccio con chitarre pungenti” di fianco ai Foals, ai Suuns, ai Two Doors Cinema Club.
A volte cose così fanno sbadigliare e schiacciare il tasto sulla prossima canzone. A volte gruppi del genere si atteggiano a next big thing e fanno quasi tristezza. A volte, ed è questo il caso, fanno concerti spaventosamente divertenti, che si incastrano perfettamente con l’atmosfera, il momento, il tempo. E quindi, nonostante le premesse, questo concerto comincia ad allungare la lista dei momenti “alti” del fine settimana.
Cosa che non succede poco dopo, quando sullo stesso palco salgono i Blood Red Shoes e i miei sbadigli si moltiplicano molto di più. Una noia assoluta. Peccato che sia questo concerto a chiudere la parte un po’ più rock della serata. Dopo di loro i palchi si dividono, le chitarre e le batterie spariscono e si fa spazio ad altri tipi di suoni.
Nel piccolo palco tra le betulle comincia il già citato Alle Farben e decido di guardarmi l’inizio del suo set. Io non ci ho mai capito nulla di elettronica e prima di venire a Berlino me l’immaginavo tutta sparata e alienante, ma è grazie a dj come lui che ne ho scoperto la versione più spensierata e colorata (perchè Alle Farben, probabilmente non ha caso, vuol dire “tutti i colori”).
Ma poco dopo mi dirigo verso il palco sotto la tenda perchè il nome non può che scatenare tutta la mia simpatia e la mia curiosità : Totally Enourmous Extinct Dinosaurs (sì, a 24 anni mi piacciono i dinosauri come quando ne avevo 6). Durante questo set la tenda si trasforma in un mondo strano e fumoso. Lui sul palco suona avvolto in uno strano costume e anche dietro di lui c’è una strana costruzione di luci al neon che ricordano la coda di uno stegosauro. Di fianco al dj compaiono anche un paio di ballerini e oltre alla basi elettroniche c’è spazio anche per qualche intervento vocale live. Insomma, una specie di live set sicuramente coinvolgente.
La serata prosegue con dei djset curati direttamente dal team dell’Immergut, che sono molto banali e sembrano usciti dal 2008 e che proprio per questi motivi mi fanno ballare ancora per un’ora abbondante. Quando abbandono la tenda è già pieno giorno, perchè tutta l’oscurità invernale è qui bilanciata da una notte estiva cortissima.