Potrei scrivere tante carinerie sul disco di debutto dell’ennesima band di Brooklyn che, tanto per cambiare, si dà incondizionatamente alla neo-psychedelia digitalizzata e al suo statico campionario di suoni surreali e pseudo-etnici. Potrei dire tante cose simpatiche su questo giovane collettivo di musicisti/artisti, tanto creativo da dedicarsi contemporaneamente al design, all’arte visuale, alle installazioni e soundtrack con la scommessa di riuscire a far bene almeno una di queste attività . Potrei parlare entusiasta della loro ricerca di suoni folkloristici che tocca gli Stati Uniti, il Messico, l’Italia, l’Australia, la Gran Bretagna, l’Argentina, il Brasile e qualche altra amena provincia dell’Impero, persuasa che in tutti questi posti ci siano stati davvero ma più ottimisticamente convinta che tali cartoline sonore siano ricavate da sample d’archivio di qualche associazione culturale a cui destinare il cinque per mille. Potrei ma non lo farò, contravvenendo al “manuale dell’onesto recensore” secondo cui bisogna cercare di ricavare il meglio anche dalle produzioni senza speranza, cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Non sempre si può essere pimpanti e disposti a sorbirsi tutto il mezzo bicchiere, come in questo caso.
“Melt” del resto è un album che si fa ascoltare, familiare, tanto simile nello stile ai lavori dei colleghi neo-psichedelici/hypnatizzati che potete trovare quaggiù tra i similar artist che nulla aggiunge e nulla toglie alle loro “innovazioni”. Più per il valore in sè, “Melt” può essere utile come caso studio per fare il punto sulla scena hypnagogica e valutare il suo attuale stato di salute. Dopo sei anni di attività la diagnosi è implacabile: artrite, reumatismi, principi di Alzheimer, si usano sempre le solite formule, si ripetono sempre gli stessi aneddoti, ci si lamenta di volta in volta o del troppo caldo o del troppo freddo.
L’hypna si è trasformato insomma in un rugoso vecchietto abbronzato, che indossa fiero i suoi sgargianti baffi bianchi e la camicia hawaiana gialla dai fiori blu fresca di stiratura, che attaccato ad una flebo guarda attraverso il vuoto della finestra dell’ultimo piano della casa di riposo che dà sulla spiaggia, pensando alle follie fatte in gioventù, di quando, annebbiato dall’alcol e da altre sostanze, disteso sul canapè ascoltava ininterrottamente “A Sourceful Of Secrets” dei Pink Floyd e “My Life In The Bush of Ghosts” di Brian Eno e David Byrne. Bei tempi quelli, inimitabili. Peccato essersene resi conto troppo tardi.
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2. Slip Time
3. You with Air
4. Yalam
5. Jam Karet
6. Night in the Ocean
7. Watch Four Lights
8. The Dancer
9. Cavalry
10. Sanctuary
11. Drawning Down the Moon
Ascolta “Sparkly”