Nel 2009 “Jewellery” fu scoperta esaltante e quel disco mi accompagnò nel delicato passaggio tra la primavera odorosa e l’estate insensata (in anno dispari poi). Un lavoro che mise d’accordo un po’ tutti, dagli addetti ai lavori fino a chi di musica ne capisce davvero, dai perdigiorno come me agli operai che mi montavano le zanzariere in casa (a proposito, furono soldi benedetti) e che non potevano fare a meno di chiedermi di mettere su il disco di “quella matta furiosa”.

La furiosa in questione di faceva chiamare Micachu, ventenne nativa di Watford ma da tempo trasferitasi a Londra per poter esprimere il suo potenziale di arringatrice di folle all’interno della scena grime e garage della Capitale, lei che veniva da studi classici di violoncello e violino. Insomma una storia sentita centinaia di volte ma ciò che conta davvero è il risultato e il risultato era un lavoro fresco e coinvolgente come pochi, dove si partiva da una chitarra acustica e si finiva a dimenarsi come pazzi in un fiume di suoni metropolitani capaci di rendere la realtà  molto meglio dei miliardi di fotografie che iniziavano ad intasare i canali telematici. Perchè il pregio maggiore di Mica Levi (questo il nome all’anagrafe) era e resta quello di carpire i suoni che le girano intorno, dai dischi ascoltati nella casa del padre come dai clangori urbani dei quartieri meno alla moda, plasmarli e renderli composizioni accattivanti.

In “Never”, secondo album in studio dopo un live e varie collaborazioni soprattutto in ambito hip-hop, il gioco rimane lo stesso ma, come quei fuoriclasse che ripetono sempre la stessa giocata spiazzando sistematicamente l’avversario, presentando qualcosa di meraviglioso, spiazzante e allo stesso tempo godibilissimo. Di chitarra acustica nemmeno l’ombra, al massimo sprazzi di elettrica e una minimale batteria a tenere il tempo, il resto è sintesi di vent’anni (probabilmente più) di musicalità  tratta dal vinile dei vecchi dischi e dal catrame dei marciapiedi vecchi dell’unica vera metropoli che abbiamo in Europa. Perchè se un nuovo Beck doveva nascere nel vecchio Continente non sarebbe potuto nascere che a Londra e non sarebbe potuto essere che donna, quindi eccola qui: Micachu e i suoi The Shapes a imbastire e imbastardire ritmi e metriche come e più di una Tune-Yard che, da perfetta americana suona più melodica e meno sconsiderata, divertendosi più e flagellandosi meno di Jamie Xiu Xiu Stewart. Non è facile trovare i pezzi migliori in una raccolta tanto bella ma un paio di segnalazioni strettamente personali voglio farle: la prima è “Low Dogg” una follia scarnissima fatta di registrazioni rovinate dei Beach Boys che si uniscono ai Beatles in fotta (dio mi perdoni) da maharishi; la seconda è “Fall” che mescola dinamiche vocali da lento degno di un “prom” dei Cinquanta americani, una elettrica distortissima e synth stellari. Roba da mandare al manicomio Marty McFly.