Ogni anno sempre la stessa storia. Appena una nuova band inglese fa capolino sulla scena musicale eccola investita di significati altri, che vanno al di là del sindacale e democratico “vediamo cosa suonano e come suonano”, come se in gioco ci fosse il destino dell’umanità . Ecco dunque i poveri disgraziati di turno investiti della carica di salvatori della patria, alfieri dello stato di salute della musica britannica nel mondo, euforici capitani coraggiosi a metà strada tra Luke Skywalker e Zapp Brannigan, destinati a combattere contro innocui mulini a vento.
Questo scenario apocalittico e schizofrenico non ci piace. Visto che la guerra fredda è finita da un pezzo e le macerie del muro di Berlino stanno lì in posa a farsi fotografare dai turisti giapponesi, facciamo finta che la massima aspirazione dei TOY sia quella di rimediare più persone ai propri concerti e mostrare il grugno su più copertine possibili, senza badare ad altro.
I TOY con il loro album di debutto sembrano voler riportare in auge lo stilema ormai sepolto delle alternative rock band di metà anni ’90, con i dovuti aggiornamenti che gli anni zero hanno apportato al filone. In dettaglio propongono uno shoegaze arioso che si presta ad ampie divagazioni psichedeliche: in “Colours running out” assecondano lo stile trasognato degli Horrors, in “Lose My Way” quello più evanescente dei Deerhunter. Si abbandonano a sdolcinate romanticherie in “The Reason Why” e rassicuranti maledettismi in “Dead & Gone”, senza dimenticare di porgere i dovuti omaggi agli Arcade Fire, di cui prendono in prestito la fisarmonica in “Motoring”. Questi gli ingredienti principali.
Per il resto, si procede nell’aggiungere alla mistura shoegaze/psichedelica qualche dettaglio che differenzi, che sia uno strumento o un clichè di qualche altro genere musicale. Ecco dunque fare la loro comparsa una volta i synth, un’altra volta gli archi, prendendo in prestito qualcosa dall’ambient, dal dream-pop e altro ancora dal chamber-pop. Ad unire il tutto la voce anonima di Tom Dougall, la quale non riesce a porre un sigillo sulla confezione e dare riconoscibilità e carisma alla proposta della band.
Problema fondamentale di “Toy” è una generale mancanza di entusiasmo che non fa decollare i brani, impostati tutti col pilota automatico, quasi a voler assecondare una certa “maniera” di proporsi.
E qui sorge la domanda: saranno mica dei poseur questi TOY?
Effettivamente la band non ha quell’urgenza espressiva tipica delle alternative rock band di metà anni ’90 a cui fa riferimento, non fa parte di alcuna scena o movimento che ne motivi l’estetica, ma si muove come una compagnia teatrale che rimette in scena un periodo certamente florido della storia del rock inglese. Prendiamo ad esempio “The Reason Why” che pare fare il verso a “Rhinoceros” degli Smashing Pumpkins, ripuliti però da qualsiasi spigolatura ereditata dai Sonic Youth ed immersi in un sdolcinato groviglio sintetico, oppure la strumentale “Drifting Deeper” che punta ancora più in alto, guardando al post-glam di Brian Eno e il suo “Here Comes The Warm Jets” e alle progressioni dei Pink Floyd di “The Piper at the Gates of Dawn”, senza però, naturalmente, la stessa classe e la stessa verve.
Nonostante le alte pretese resta un buon debutto quello dei TOY, i quali si mettono in gioco in un campo scivoloso perchè troppo inflazionato, infilandosi in una gabbia di leoni in pennichella pronti a smembrarli pezzo pezzo all’alba del sophomore. Gli auguriamo davvero di sciogliere la maledizione che attanaglia da troppo tempo le next big thing britanniche, selezionate in batteria e costrette a realizzare un debutto-blockbuster che faccia il botto come se non ci fosse un domani, per poi finire nel dimenticatoio peggio di uno scarto da talent show. In attesa di questo cambio di prospettiva i TOY offrono un buon diversivo, adatto per prendere confidenza con queste prime fredde giornate autunnali. Che tanto, a salvare il mondo ci pensa Batman.