Ascoltandolo oggi non si direbbe che Neil Halstead sia nato musicalmente ai tempi dello shoegaze, con quegli Slowdive in cui già pulsava un animo morbido a dispetto di tutti i muri di chitarre possibili. Poi arrivarono i Mojave 3, probabilmente la miglior band folk-pop degli ultimi vent’anni e la natura bucolica del suo sentire venne fuori prepotente. “Palindrome Hunches” è un manifesto di nostalgia e quiete, fatto di ricordi sotto vetro e pontili di legno sulle rive di laghi immaginari; uno di quei lavori che da un lato di prende per il bavero e prova ad affondarti nella malinconia ma allo stesso tempo riesce a metterti in pace con te stesso. Ci sono canzoni come l’iniziale “Digging Shelters” o “Wittgeinsten’s Arm” che sembrano scritte apposta per trascinare nel bel mezzo dell’inverno e sopravvivere ad ogni crepa che impietosa ci fissa dal muro.
Niente più che un pugno di storie folk che al cantato aggiungono poco: una strumentazione acustica fatta di chitarre, contrabasso, pianoforte e violini. E’ come trovare la musica del Mojave 3 costretta a bagnarsi di tutta la pioggia possibile, lasciata in balia della stagione fredda. A volte il tributo pagato a certe influenze, Nick Drake su tutti, è un po’ troppo alto, rendendo il risultato più interlocutorio in alcuni passaggi. Per il resto ci sono melodie da fiori appassaiti, foglie bruciate dal freddo e notti profonde difficili da scaldare. Momenti perfetti per chiudere il mondo fuori la finestra e osservarne il lento divenire accanto ad un camino acceso. Ci sembra sincero Neil, mai in preda di schizofrenie da emulazione anche quando certe ispirazioni sono più che un’evidenza. Difficile immaginarsi qualcosa di diverso da questo, oggi. Nessuna sorpresa ed è una fortuna, la strada di casa è sempre a portata di mano. Poco importa che il vento abbia spazzato via le ultime foglie, quegli alberi resteranno ancora con le radici salde per terra ad accogliere le prossime stagioni di luce.