Gli episodi de “The little house in the prairie” (parlo proprio de “La casa nella prateria”) sono 203, le stagioni 9, gli anni di produzione si prolungano dal 1974 al 1983: le avventure della perduta storia statunitense di Walnut Grove, Minnesota (sì, esiste davvero) e di quei territori che si estendono dal South Dakota al Wisconsin hanno avuto un successo abbastanza prolungato per cui se io adesso ne parlo, tutti voi sapete a cosa mi sto riferendo. Camicette con improbabili colletti bianchi, gonne lunghe, gentiluomini del sud, polvere e verande comprese.
In verità le avventure degli Ingalls sono state girate sotto il caldo sole di Arizona e di qualche sperduto ranch californiano, ma poco importa. Un fondale dipinto ha lo stesso valore di una scenografia non ricostruita, se catturi le giuste onde creative, se ci credi sul serio, anche solo per un secondo. Così “Almanac” è il nuovo album dei Widowspeak, e siamo a New York, ma qua e là spuntano gli Ingalls e sulle note di “Ballad of the golden hour” è la colonna sonora per un perfetto fan video commemorativo.
Molly Hamilton e Robert Earl Thomas ““ nomi perfetti per apparire come guest star in uno di quegli episodi ““ dopo il loro primo vero album (“Widowspeak”, 2012) uscito dopo un paio di bei singoli (“Gun Shy”, “Harsh Realm”), compiono un breve e immaginario viaggio verso l’ovest. Così Minnewaska, a un’ora e mezza dalla loro New York, con le sue belle cascate è la riserva indiana del Mid West di cui si canta con morbida nostalgia, come una filastrocca prima di andare a dormire.
Ma le riserve indiane sono piene di strane leggende, di spiriti vendicativi e cose così. Di racconti sulla natura che si perpetua, di spiriti, di riti ““ come gli almanacchi più completi. E uno dopo l’altro il duo americano racconta tutto quello che succede, che è successo e succederà ““ a metà tra il sogno e la predizione. E la voce di Molly Hamilton è perfetta così, traccia il percorso di un viaggio che non ha ancora davvero fatto, ma di cui ricorda tutto; la sua capacità evocativa ““ e non basta sussurrare un po’ per averla ““ è quanto di più interessante si possa trovare in “Almanac”. Un anno fa li ho sentiti suonare a Bologna, nelle cantine di una vecchia profumeria e Molly mi raccontava di come, una volta superate le Alpi in furgone abbiano visto la foschia illuminata dalle luci dell’alba ““ una golden haze, una nebbia che rifrangeva i colori. Un ricordo simile a un sogno. Ecco, oggi, quando sento “Almanac” e la voce di Molly ricordo anch’io quella mattina, anche se non c’ero.
Un disco leggero e a tratti persino fragile, piacevole e di quella freschezza creativa che si può avere solo da giovani, quando si può ancora giocare a travestirsi da qualcos’altro, quando anche i riferimenti alle praterie risultano appropriati e divertenti e mescolare suoni e luoghi diversi è un gioco che si fa aprendo l’atlante a una pagina casuale.
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2. Dyed in Wool
3. The Dark Age
4. Thick as Thieves
5. Almanac
6. Ballad of the Golden Hour
7. Devil knows
8. Sore Eyes
9. Locust
10. Minnewaska
11. Spirit is willing
12. Storm king
Photo Credit: Ebru Yildiz