Chi di noi non ha mai provato almeno una volta nella vita la voglia di mandar tutto a quel paese e andare a vivere nella natura più o meno incontaminata, in compagnia di frate Sole e sora Luna? Ebbene, almeno un’altra persona nel mondo sarà sempre a nostra disposizione per abbracciare un viaggio in lande più o meno desolate: quella persona risponde al nome di Sean Rowe. Il quale è sì un musicista, e di questo parleremo a breve, ma è anche un vero naturalista, che tiene dei corsi per affrontare la natura e sopravvivere in mezzo alla faccia più inospitale di quest’ultima.
Una cosa è certa: a Sean Rowe la mondanità non va a genio, per niente. Non ama i riflettori, le luci abbaglianti della città , ecco perchè nell’incipit del suo nuovo lavoro chiede che gli sia restituita la notte, il regolare ciclo della vita, le stelle come unico neon. Altro che gente al computer all’una di notte che scrive la recensione della sua ultima fatica. Vagheggia un eden lontano dai centri urbani, dalla ipertecnologizzazione odierna, un ritorno all’innocenza e alla veracità primordiale ma ingentilita (There was a way I used to talk I cannot recognize / And now my language cannot give me what I need).
è un animo allo stesso tempo carezzevole e rude, grezzo nel senso migliore che esista, autentico, genuino insomma, quello di Sean: la sua voce baritonale, più profonda di un pozzo, calda, in alcuni momenti bollente, avvolgente e vellutata, sa emozionare sul serio come poche (si ascoltino “The Ballad Of Buttermilk Falls”, “Thunderbird” e quello che a parere di chi scrive è l’episodio migliore dei dodici pezzi in scaletta, “Flying”). Convince appieno il Nostro, sia quando mantiene i ritmi piuttosto blandi (come nel caso di “Bring Back The Night”, la citata “Flying”, il singolo “The Lonely Maze”, la conclusiva “Long Way Home”) sia quando arriva il momento di incrementare il numero dei giri (“Joe’s Cult”, le spagnoleggianti “Horses” e “Downwind”). Le melodie vocali si incastrano poi alla perfezione in ceselli strumentali di matrice essenzialmente folk e in parte blues in cui rivestono particolare importanza xilofoni e triangoli e gentili incursioni pianistico-chitarristiche (esemplificativa in questo senso “Old Shoes”) e violini che paiono, a seconda dei casi, leggere brezze o imponenti folate di vento caldo.
Un album cui concedere il tempo di sprigionare la sua forza poetica. Un album da ascoltare davanti alla notte. Un album, proprio come la voce del suo autore, cavernosamente soave.