All’indomani di una lunga coda post-“High Violet” a base di brani prestati a colonne sonore di film, serie tv e videogiochi, più l’organizzazione dell’ATP festival l’anno scorso ed alcune esibizioni speciali tipo la performance trasmessa via web con Bob Weir dei Grateful Dead o quella surreale eseguita al museo Moma di New York con la canzone “Sorrow” tratta dal penultimo album suonata per sei ore di seguito! (senza menzionare i vari impegni da produttore di uno dei due gemelli “axe-man” Aaron Dessner) i National tornano a illuminare di una flebile luce sgualcita le notti di New York e i passi e le stanze di tutti gli umani sintonizzati su quelle stesse frequenze “grigie” che li hanno resi celebri.
Il successo anche dal punto di vista dei numeri del precedente album non ha scalfito la classe e l’urgenza espressiva di Berninger e soci. Il cantante, abbandonate da un paio d’anni le bionde alla nicotina nel taschino della memoria, sfoggia un timbro mai così pulito e fragili linee vocali di bellezza mai così cristallina, anche se alcuni probabilmente preferiranno il Matt più sporco di qualche anno fa.
Allargando la visuale, pensando a tutto l’album e al lavoro di tutti i membri, rimane quell’impressione, come nel recente passato, di un tentativo di ammodernamento e crescita che fa pensare ad un movimento “laterale”, nel senso che non vi sono grandi rivoluzioni del sound della band, ma si rinviene un’attitudine che mira sempre di più alla cura del piccolo dettaglio e al contempo alla pulitura delle strutture, con la scrematura degli orpelli ingombranti a favore di azzeccate scelte di stampo ancora più minimalista, che però in realtà nascondono, probabilmente, un enorme labor limae. Le chitarre sono sovente meno “grinzose”, svelando spazi sonori in parte inediti, come se sipari rugosi si fossero aperti su brillanti vallate notturne, oasi di sobria desolazione nascoste nel cuore di ideali città fantasma, immerse in scenari di malinconia urbana che mal cela un’aura quasi letteraria, che riconduce a all’apparenza dimesse che esplodono quietamente nei testi mai così in un certo senso cantautoriali e tutto sommato mai così intellegibili, incastrati in simulacri di confessioni irrisolte.
Ordunque i National, pur riconoscibilissimi, danno l’idea di aver creato qualcosa di nuovamente necessario, un ulteriore capitolo senza il quale forse non li avremmo mai davvero compresi fino in fondo. Sono canzoni che hanno tutta l’aria di essere rimaste intrappolate nel tempo, da tempo. Come se fossero sempre esistite. Più che mai catartiche, grazie soprattutto a certi finali di splendore epico che fanno accrescere quella sensazione sempre più pulsante di trovarsi di fronte a un insospettato vero e proprio passo in avanti, cosa che non è del tutto chiara durante i primi ascolti. Ma un album dei National è sempre un ‘grower’. Un amico che conosci da sempre ma che ti cresce dentro piano piano, fino ad innamorarti perdutamente di lui e, come dire”… dimenticare te stesso per trovare un amore che era perduto”… e ritrovare te stesso.
Così “Heavenfaced” (picco emotivo dell’album, grazie ad un raffinato tappeto sonoro dall’afflato quasi orchestrale) svela il suo volto struggentemente celestiale solo negli istanti finali, mentre “This is The Last Time” si rivela inno esistenziale dopo essere partita come una malinconica confessione vespertina, come fa la ben più wave-oriented e ritmata “Sea Of Love” con la sua orizzontale detonazione conclusiva a base di chitarre ascensionali e linee vocali che gridano al vento e a cieli crudelmente luminosi tra il trionfo e la disperazione, appoggiate su un rigidissimo ma avvincente schema di batteria. Tutto il disco comunque si attesta su livelli altissimi, dall’iniziale, accorata “I Should Live In Salt”, alla martellante-con-dolcezza “Don’t Swallow The Cap”, fino alle ballad una più maledetta, triste, tenera e bella dell’altra “Slipped”, “Pink Rabbits” e “Hard To Find” (rifulgente di un fioco splendore che neanche la vecchia “About Today”, ed è tutto dire”…).
Persino episodi apparentemente minori come “Graceless” (una sorta di “Apartment Story” un po’ più lesta ed ipnotica) e la già nota “I Need My Girl” crescono inesorabilmente play dopo play, risultando come altri preziosi tasselli che contribuiscono a comporre un’opera -non ce lo saremmo aspettato dopo tre album giganteschi consecutivi- di nuovo incantevole.
L’ennesima prova di generosità di una band figlia di un tempo arido ed avido.
Photo Credit: Josh Goleman