Brixton, non uno dei posti più invitanti di Londra. Fuori dalla metropolitana una piazza con una stazione di polizia e una agenzia di pompe funebri. Una fila di persone arrivate da altre parti della città  attraversa l’incrocio e si dirige alla O2 academy, una zuccheriera bianca che in memoria di non so quali fasti passati si ritrova ad ospitare concerti rock, gente che non si preoccupa certo per un po’ di intonaco cadente e un atrio non più luccicante. This way please, ladies and gents and something in between sbraita l’addetto alla security, ma non credo quello di stasera sia il pubblico più metrosexual che gli sia capitato di vedere: a dieci anni dall’uscita del loro unico, memorabile album, il concerto dei Postal Service è più un affare per nostalgici, coppie di trentenni che associano quella musica all’inizio della loro relazione, oppure onesti appassionati che forse ancora oggi metterebbero quel disco in una ipotetica top 20 o più probabilmente top 50; roba da Alta Fedeltà  insomma, difficilmente da disco della vita.

Dopo quaranta minuti di inutile sofferenza a nome Stealing Sheep, trio britannico al femminile che fa venire più volte la tentazione di abbandonare il prezioso posto nelle prime file, è il momento: accolti da un boato Ben Gibbard e Jimmy Tamborello entrano sul palco accompagnati da due donne: Jenny Lewis (già  nei Rilo Kiley) e Laura Burhenn (Bright Eyes, ora Mynabirds). L’equivoco sulla presunta asessualità  della serata finisce esattamente qui: Jenny e Laura sono entrambe (s)vestite in mise che non sfigurerebbero in un film soft-core, Ben e Jimmy non sono nel frattempo diventati lo stereotipo del macho ma perfettamente azzimati e in eleganti camice nere sarebbero ugualmente pronti alla loro parte nel medesimo set pornografico. Addio tweeness, la scenografia è tutta all’insegna del glitter e la musica pure non scherza: dall’alto della sua console Tamborello spara subito casse dritte a riempire al massimo i sub e “The District Sleeps Alone Tonight” diventa un mantra estremamente fisico che non trattiene nulla della sottigliezza che ricordavo. Mi ritrovo in un’inattesa atmosfera da discoteca estiva e nel contorno di luci viola non rimane che prendere atto che dieci anni sono passati e i nostri non sono più (se lo sono mai stati) due ventenni ingenui e brufolosi in preda a struggenti sofferenze sentimentali. O forse ci avevano solamente ingannato bene, antesignani della migliore ipocrisia hipster?

Fortunatamente nel giro di qualche pezzo il disorientamento si stempera, mentre uno dopo l’altro si snocciolano le gemme di “Give Up”: “Sleeping In”, “Nothing Better”, “Clark Gable”, fino al tripudio di “Such Great Heights” quasi a fine concerto, dopo un’ora abbondante di set. Quando mettono sul piatto i pezzi forti, i Postal Service sono ancora in grado di incantare con le loro melodie perfette e i testi irresistibilmente romantici. Anche la chitarra di Gibbard a volte esce prepotente, fino al punto di far venire il dubbio che i led luccicanti e le atmosfere pacchiane che caratterizzano buona parte del loro set stasera non siano altro che ironia, tromp l’oeil disegnato attorno alla loro musica per divertirsi a risuonarla a distanza di molto tempo. Ma più probabilmente sono solo cambiati, loro come noi, e se mi giro verso il pubblico che canta a memoria I am thinking it’s a sign / That the freckles in our eyes / Are mirror images / And when we kiss they’re perfectly aligned vedo facce mature che hanno smesso da tempo di prendere quelle parole alla lettera. Di certo quando nell’ultimo bis Gibbard conclude “Brand New Colony” incitando tutti a unirsi al coro e urlare con lui “Everything will change”, non sembra esserci frase più appropriata.

Credit Foto: Brian Tamborello