La ventesima edizione del Sonar di Barcellona, con buone probabilità il più importante festival europeo di musica elettronica e sperimentazioni sonore, audiovisive, new media e via dicendo, come da miglior tradizione pubblicitaria comincia a far parlar di sè mesi prima del concreto avvio alle danze per merito della solita polemica da lineup. Mai come in questa edizione si è infatti aperto il dibattito tra un’organizzazione ogni anno più aperta a quell’EDM più commerciale e sputtanata e quella fascia di aficionados colti che ancora si disperano per come sia stata possibile la presenza di un Diplo o di un Baauer. Ancora ricordo con divertimento la faida avvenuta sulla pagina facebook del festival catalano nel giorno dell’annuncio di Skrillex, il male per eccellenza, accolto a sputi e insulti. Personalmente, non nutrendo particolari interessi per questo tipo di elettronica non mi priverò tuttavia di farmi coinvolgere da questo flusso tamarro che attraversa questo lungo e pazzo festival per tre giorni. Ma andiamo con ordine.
Il sonar, diviso in una parte diurna (quest’anno pregiata di una nuova location, la Fira Montjuic, ottima per spazi e funzionalità , un po’ meno per l’acustica) e in una notturna, comincia il 13 giugno con l’assenza di quest’ultima. Nonostante le danze si aprano allo scoccare del mezzogiorno, giungo in loco per le 17, così come sembra stia facendo la maggior parte del pubblico a giudicare dalla massa presente ai cancelli, giusto in tempo per assistere al live di Gold Panda. L’inglese sfodera un set rapido e molto coinvolgente privilegiando le tracce dell’ultimo “Half Of Where You Live”, tra le quali spicca l’esecuzione dell’ottima “Junk City II”, senza disdegnare brani dal disco d’esordio, che ovviamente faranno la vera felicità del pubblico presente nel Sonar Village, l’enorme palco principale dell’area diurna, aggredita da un sole selvaggio che non sembra comunque spaventare gli astanti. Perdo l’ultimo quarto d’ora per il gusto di buttare un occhio sui Liars, ormai giunti alla fine del proprio live. Il problema della coincidenza di molti artisti in scaletta si ripeterà più volte nei tre giorni a venire, ma ce ne faremo una ragione. Il festival continua e il prossimo a salire sul palco del Sonar Village è Sèbastien Tellier. Per quanto possa apprezzare questo genio folle e visionario, mi duole ammettere come questa performance, la terza a cui assisto in questo tour, sia la peggiore a cui prendo visione, forse per stanchezza dopo mesi di live, forse per l’atmosfera meno intima, sta di fatto che dopo poco più di mezz’ora mi avvio in diezione Sonar Hall.
Che Mykki Blanco sia uno dei personaggi più hype della stagione è cosa ovvia, e anche a ben vedere, considerando la bontà , più che del primo mixtape uscito qualche mese fa, dell’ultimo EP “Betty Rubble: The Initiation”, piccolo manuale queer-rap in attesa del disco d’esordio. Le aspettative per la prova dal vivo sono dunque altine, e non solo per il sottoscritto a giudicare dalla massa arrivata in sala. Peccato che la risposta del rapper sia piuttosto deludente sul fronte live: accompagnato da un dj alle basi, Blanco, che in pochi mesi ha fatto del proprio personaggio il traino principale per la propria carriera, delude le aspettative del numeroso pubblico; poche le idee per tenere il palco, debole il fraseggio rap, l’artista statunitense non lascia il segno. Fortuna che Lindstrøm e Todd Terje siano già pronti nel Sonar Village a dare il meglio di sè, in un’enorme nuvola disco a consacrare la loro recente collaborazione in “Lanzarote”, passando per pezzi provenienti da entrambi i cataloghi dei due artisti, in un set divertente che si confermerà tra i migliori del festival.
Il secondo giorno di Sonar by Day comincia per il sottoscritto con la zarraggine dei Foreign Beggars, gruppetto dub/hip hop noto ai più per le collaborazioni coi vari Flux Pavillion, Skrillex, Noisia e tamarri vari, in una più che godibile esibizione all’insegna di clichè dubstep non violenti quanto il sole di Barcellona, che mi fa benedire l’inizio del set di Uwe Schmidt nel meno torrido Sonar Hall. Atom TM, fresco dell’altalenante “HD”, predilige gli estratti più IDM della sua sconfinata discografia accoppiandoli a degli algidi visual geometrici che vinceranno solo il secondo posto della topten diurna perdendo contro gli infallibili Alva Noto e Byetone, qui riuniti nel supergruppo electrocolto Diamond Version. La glitch-techno dei due tedeschi prende vita su un impressionante tappeto di led; scariche luminose in rapida successione a illustrare un elettrocardiogramma sonoro a celere e danzereccia frequenza. Ritorno nel Sonar Village e ritrovo ancora lì l’insopportabile Jamie Lidell, al termine della propria esibizione, che riesce tuttavia a strapparmi un sorriso campionando le sue vocalità soul in un simpatico divertissement house. Termino in bellezza il secondo assolatissimo giorno di festival coi Modeselektor, già da qualche mese in odor di autocelebrazione mediante il documentario “We Are Modeselektor”; i simpatici berlinesi, accompagnati alla console dal non annunciato Siriusmo, sfoderano un set senza troppe sorprese, tra classici, qualche perla ignota, un’apprezzatissima “Rusty Nails” dal progetto Moderat e la consueta cazzonaggine che non guasta mai.
Per quanto avrei voluto e mi sia impegnato per essere in perfetto orario al cospetto (dall’altra parte della città ) dei quattro monoliti di Dusseldorf, o perlomeno ciò che ne rimane (Ralf Hutter tieni duro), distanze, trasporti, file e coincidenze varie non mi permettono di godermi il 3D show dei Kraftwerk dall’inizio alla fine. Arrivo con una mezz’ora abbondante di ritardo e li trovo lì, bellissimi, imponenti, già con addosso le tutine fluo e il Vaio acceso; non dispero troppo: i visual non sembrerebbero poi troppo differenti da quelli della loro ultima comparsata in Italia, qualche anno fa a Livorno, salvo per il 3D, che oggettivamente funziona da dio e fa gridare il pubblico come una scolaresca di bambini un po’ scemi al teatro delle marionette. La scaletta sì, è diversa, e mi permette infatti di godere di quella che fu la traccia d’apertura dell’ultima volta che li vidi, l’epica “The Man Machine”, che dal vivo brividi che proprio ciao. Si continua così, tra grandi classici, la sempre un po’ evitabile sessione “Tour de France”, l’enorme “Radioactivity” nella versione di “The Mix” che svela un “Fukushima” al posto di “Hiroshima”, tanto per chiedersi un altro po’ come si faccia a non volergli bene a questi qui.
Che il Sonar fosse un festival di scelte lo si era capito, ma scegliere tra la fine dei Kraftwerk e la possibilità di buttare un occhio su Bat For Lashes o Nicolas Jaar è una di quelle carognate che maledirai a vita. Per quanto possa voler bene a Natasha Khan, mi faccio trascinare da Jaar, che mi sorprende con bassi monumentali e ottimi visual in un gran set il cui apice è un mash-up tra “Mi Mujer” e “Space Is Only Noise”.
Da questo momento in poi mi sarebbe tanto piaciuto raccontarvi di come abbia evitato quel muro EDM tamarro che vedo avvicinarsi al mio cospetto, ma la verità è che, complici compagnie ed ebbrezza mi ritrovo nientemeno che da Baauer, il signor “Harlem Shake”, in un djset ignorantissimo tra bassi roboanti e strombazzamenti vari, e sarei un bugiardo ad ammettere di non essermi divertito. L’ignoranza regna sovrana e prosegue a gonfie vele coi Major Lazer sul palco: Diplo, un paio di vocalist e due ballerine di colore che in confronto Nicki Minaj è Madre Teresa di Calcutta. è il trionfo della swaggaggine, una via di mezzo tra un folle djset urban e un rave, la celebrazione della cafonaggine, un rito pagano dove Rihanna siede alla destra del padre, che però è Snoop Dogg, e tutti felici e contenti senza farsi troppe domande sul perchè stiamo ballando un remix dubstep di “Suavemente” di Elvis Crespo.
Torno in me. La minimal non è mai stata troppo di mio gradimento, nonostante ciò devo ammettere di rimanere piacevolmente sorpreso da Maya Jane Coles e il suo set oscillante tra una tech-house più che sopportabile e validi ritmi dub. è solo con i Karenn di Blawan e Pariah che torno all’ovile, la loro techno oscura e sporca di dub mi rimette coi piedi per terra per un’ora buona; la notte, ormai mattina, si conclude col set di Richie Hawtin, per cui vale il medesimo discorso della Coles. Per quanto questo genere non mi appartenga, l’atmosfera, la cura per il dettaglio e la spettacolarizzazione del tutto riescono a coinvolgermi e a farmi apprezzare a pieno quanto fatto dal principino di Ibiza.
L’ultimo giorno di festival comincia con una cocente delusione, ovvero la scoperta che quello di Fatima Al Qadiri non sarà un live bensì un djset. La giovane kuwaitiana, all’attivo una manciata di validissimi EP tra un post-dubstep onirico e certa trance svecchiata da elementi etnici, fa ballare i pochi astanti accaldati a ritmi dancehall e alt hip-hop, con scelte pure piuttosto oculate che tuttavia non giustificano lo spostamento dai pochi angoli di ombra presenti. è solo coi Chromatics che il pubblico accetta stoicamente l’insolazione, verrà ripagato con la consueta classe ed eleganza, la suadente magia dell’analogico e una “In The City” da brividi. Mary Anne Hobbs estrae dal proprio cilindro una sfilza di perle e ricercatezze che ti fanno venir voglia di passare il suo set con Shazam acceso, e ti fa sentire pure un po’ ignorante quando l’unico pezzo che riconosci è “Voyeur” di James Blake. Seguono gli AlunaGeorge, che rispetto a quanto visto qualche mese fa sembrano averne guadagnato in carisma e coscienza del palco; le anteprime del disco in uscita a luglio sembrano promettere benino, non sconvolgono ma non lasciano neanche l’amaro in bocca, piacevole l’arrangiamento electropop proposto per “White Noise”, originalmente scritta a otto mani coi Disclosure. Il Sonar by Day si conclude in bellezza con il live dei TNGHT, recentemente balzati alle cronache per la collaborazione con Kanye West. Lunice e Mohawke non perderanno l’occasione di proporre lo strumentale di tale contributo, con grandi apprezzamenti del pubblico.
La maledizione del Sonar by Night si ripete nuovamente, questa volta a discapito dei Pet Shop Boys, per i quali non ho mai nutrito particolari passioni ma che avrei visto comunque volentieri. Arrivo in loco in gran ritardo, riuscendo ad assistere solo all’esecuzione di “Love etc.”, che tra visual coloratissimi, abiti di scena assurdi e trashate varie mi lascia un po’ l’amaro in bocca per aver perso questa possibilità . Mi sposto tuttavia per andare a seguire gli ultimi due pezzi dei Jurassic 5, per poi dirigermi in direzione Delorean. Il gruppo spagnolo, accompagnato sul palco da una vocalist per buona parte del live, esegue in maggioranza brani tratti dall’acclamato “Subiza”, presentando inoltre novità che lasciano ben sperare per la futura pubblicazione del gruppo.
Passate un paio d’ore a vagabondeggiare tra le enormi sale della Fira Gran Via, metto definitivamente radici al Sonar Pub, dove rimarrò fino alla chiusura; i Justice terminano il proprio djset tra una “Stress” e una selezione di girlband anni 60, tra Ronettes e Supremes. Segue Skream, anch’egli in veste di dj, ancora fresco di polemiche per aver recentemente annunciato l’addio alla dubstep; effettivamente le sue scelte verteranno più su garage e techno, e l’unico momento più dub sarà a favore di un remix un po’ piatto della sua “Wibbler”. Si giunge così al termine con l’arrivo di Laurent Garnier, che in commemorazione del 25esimo anno di attività si sbilancia in un set di tre ore piene tra techno e french touch. A lui l’onore di chiudere il Sonar 2013, la scelta del brano d’epilogo ricade su “Out Of Space” dei Prodigy; al suo termine, una folla oceanica si avvia lentamente verso i cancelli. Molti, tra cui il sottoscritto, temporeggiano fuori dagli enormi padiglioni della Fiera, altri si avviano verso i mezzi di trasporto, altri ancora domandano per after. Aleggia nell’aria un’atmosfera di soddisfazione generale, alla faccia delle polemiche prefestival, come sempre del resto.